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“Così Lucio Magri ci indica cosa riscattare del nostro passato”, di Guido Liguori.

Nella prospettiva di un rilancio della rifondazione comunista, prospettiva che si è recentemente arricchita della ripresa delle indicazioni di Walter Benjamin sulla necessità di riscattare, dentro le scelte rischiose del presente, la memoria del passato, è opportuno tornare all’ultimo libro di Lucio Magri (“Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci”, Il Saggiatore, 2009, già efficacemente recensito su queste pagine da Alberto Bugio) che proprio di quel passato ci parla. Ed è opportuno tornarvi anche per capire quanto debba essere selettivo quel riscatto e quanto, di fronte al presente, solo una parte del passato possa ritrovare efficacia.

Restituendo dignità ad una vicenda troppo frettolosamente sotterrata dai suoi epigoni, Magri ci propone una storia controfattuale del Pci, chiedendoci se altre scelte non fossero possibili in momenti cruciali di quella storia (in particolare: la Bolognina, l’unità nazionale, il ’68-’69). La sua risposta, positiva, ci suggerisce che il patrimonio del Pci, ed in particolare la lezione gramsciana sulla processualità della rivoluzione in Occidente, avrebbe potuto consentire (a patto, sembra di capire, di una più determinata azione dell’opposizione interna al Pci stesso) una migliore connessione con le lotte operaie e studentesche, una politica – negli anni ’70 – meno subalterna alla Dc, un rinnovamento non liquidatorio alla fine del decennio successivo, permettendo al movimento operaio di giungere forse indebolito, ma comunque ancora integro, all’appuntamento con la crisi della Prima repubblica.

La ricostruzione è appassionata ed avvincente, ed anche a tratti convincente, soprattutto nell’illustrare come la difficile fase che, sul finire degli anni ’70, pose al Pci il problema di offrire uno sbocco alle lotte pur tenendo conto delle costrizioni imposte dalla crisi economica, avrebbe potuto essere interpretata con una soluzione meno rinunciataria di quella dell’unità nazionale, come dimostrò a posteriori il ritorno berlingueriano ad una politica di alternativa. Ma le possibilità di una storia controfattuale sembrano finire qui. Fu proprio il frutto più avvelenato dell’unità nazionale, ossia il prepotente emergere di un gruppo dirigente a vocazione esclusivamente amministrativa e “governista”, a rendere male accetta alla struttura portante del partito la “svolta a sinistra” di Berlinguer e a rendere poi sostanzialmente inevitabile la Bolognina. E, all’origine di tutto, fu proprio l’interpretazione che il Pci diede degli anni ’60, ed in particolare del biennio operaio e studentesco (giustamente considerato da Magri come vero banco di prova del rapporto del Pci con le forme moderne del conflitto) a rendere davvero assai difficili, successivamente, scelte diverse da quelle del compromesso storico e della centralità della mediazione istituzionale.

Il Pci fu in fondo incapace di trovare un rapporto fecondo con la vera novità che si manifestò proprio nel corso di quegli anni, ossia con l’irreversibile autonomia dei movimenti sociali. Sospettoso nei confronti degli studenti, delegò al sindacato il rapporto quotidiano con gli operai e non seppe creare un gruppo dirigente capace di interpretare la direzione politica come attività dialogica e non pedagogica, continuando ad assegnare al solo partito il ruolo di “vero” soggetto politico. Fu così perduta quella connessione con la materialità della condizione operaia che avrebbe potuto far meglio comprendere al Pci i rischi dell’unità nazionale, ed iniziò probabilmente allora quella divaricazione fra istituzionalizzazione del partito e progressiva depoliticizzazione dei movimenti che ancor oggi patiamo.

Una involuzione dovuta anche (e so di toccare qui un punto che meriterebbe ben altre argomentazioni e discussioni) a quella concezione monocratica del partito che è la parte meno fruttuosa del lascito gramsciano e togliattiano e che ci impedisce di rapportarci a quella ricchissima esperienza senza una preliminare dichiarazione di discontinuità. Discontinuità che non è affatto liquidazione, ma liberazione (e quindi riscatto) delle parti migliori del passato, che ancora oggi ci parlano e chiedono di essere riattualizzate. Mi riferisco alla capacità di costruire una dimensione di massa, lavorando non solo sull’ideologia e sulla politica, ma anche sulle forme di socialità quotidiana dei lavoratori e dei cittadini: compito divenuto più difficile ma anche più cogente oggi che la socialità in parte si è rarefatta e in parte è divenuta un prodotto industriale.

Mi riferisco, inoltre, alla capacità di analisi della “situazione economica” come espressione di rapporti sociali, alla capacità di connettere la dimensione mondiale e la specificità nazionale e comunque locale, all’attitudine per la concretezza e la precisione dei programmi. Tutte virtù che non a caso declinarono negli anni ’70 (sostituite da un pragmatismo che ha bisogno solo di conoscenze tecniche, e forse nemmeno di quelle) e di cui Magri ci offre, nel libro, lucidi esempi: nel descriverci il conflitto tra Urss e Cina ed i suoi effetti mondiali di lunga durata (il dissidio del movimento comunista internazionale ha creato i presupposti del rapporto tra Cina e Usa e quindi, aggiungo, della stessa globalizzazione…), nell’illustrarci la multiformità dei rapporti di classe in Italia e i loro effetti sulle caratteristiche della nostra economia, nella puntigliosa indicazione di punti programmatici capaci di volta in volta di unire un ampio fronte contro le mutevoli configurazioni dell’egemonia avversaria.

Esempi che contribuiscono a spiegare la serietà dell’esperienza comunista in Italia e a farci intuire quale parte del passato debba oggi allearsi alle conoscenze del presente, per tentare diversamente, ma tentare ancora.