- in un saggio sulla politica dei Fronti popolari Emilio Sereni ha dedicato una polemica assai lunga e assai severa ad un mio recente articolo che, incidentalmente e in poche frasi, accennava un giudizio sullo stesso argomento; presentandomi come l’esempio più recente di un’antica tendenza estremistica che vuole liquidare quella grande esperienza, minimizzarne il significato, e contestarne la permanente verità. Di tale polemica vorrei, innanzitutto, lamentare un po’ il metodo: quel metodo, necessario e fruttuoso negli studi di storia antica, per cui si ricostruisce, sulla base di alcuni frammenti, liberamente un intero pensiero; e che, applicato alla discussione politica, rischia di fare molte vittime innocenti e di disegnare interlocutori di comodo.
Certo, da questo punto di vista, il torto è anche mio, per aver tentato un giudizio su di una questione tanto delicata e complessa in modo troppo sommario. E tuttavia non vedo come le stesse frasi del mio articolo che Sereni riferisce possano legittimare la versione, lasciar sospettare le tesi rozze e liquidatorie, che mi vengono attribuite. In quelle frasi, infatti, non era contenuto alcun giudizio negativo sulla politica dei Fronti, su ciò che essa nel passato ha garantito, e su ciò che ha preparato e sollecitato per più tardi. Tanto meno si proponeva una rivalutazione delle note tesi sul “socialfascismo” e sulla “lotta classe contro classe” che guidarono la confusa politica del “terzo tempo”.
Si tentava, invece, solo di suggerire una riflessione critica intorno a quella decisiva esperienza per coglierne insieme il valore profondo e il limite storico; quel limite che le impedì di affrontare con pieno successo il passaggio dalle fasi difensive a quelle offensive della lotta di classe, e che, molto schematicamente, mi pareva di cogliere in una non ancora liquidata distinzione tra fase democratica e fase socialista, tra obiettivi intermedi e salto rivoluzionario. È tale riflessione, tale ricerca che, in sostanza, il compagno Sereni rifiuta; riproponendo della politica frontista, e dunque della storia del movimento operaio, una visione che a me pare troppo apologetica così da dover forzare il quadro degli avvenimenti e darne un’interpretazione unilaterale.
Per Sereni, il VII congresso dell’Internazionale rappresenta il grande spartiacque che divide la preistoria dalla storia, l’infanzia dalla maturità, nella vicenda del comunismo occidentale, e fornisce dunque, in forma embrionale ma esaustiva una risposta adeguata al problema della rivoluzione occidentale. Il rapporto tra riforme e rivoluzione, la concezione dell’unità e delle alleanze, il giudizio sul capitalismo, in esso elaborati, sono già, in sostanza, quelli che più tardi il nostro partito ha sviluppato ed approfondito.
I ritardi e le sconfitte di cui pure quella politica è segnata sono solo da imputare alle difficoltà oggettive o alle resistenze che essa dovette vincere o contro di essa più tardi risorsero; e in nessun modo tali difficoltà si riflettono in insufficienze e contraddizioni della linea allora elaborata. Dal VII congresso ad oggi non vi è e non deve esserci nella storia del movimento operaio occidentale soluzione di continuità. La chiave dei problemi che oggi la realtà propone ci può dunque venire non da uno sviluppo e da una critica insieme, ma solo dalla riaffermazione rigorosa, dalla interpretazione finalmente fedele, contro vecchi e nuovi avversari, di quella sperimentata strategia. Ora, io non credo che tale interpretazione sia scientificamente corretta, che ci consenta di ricostruire in tutta la sua ricchezza la storia del movimento.
Temo invece che essa tenda ad oscurare la originalità della ricerca di Gramsci e di Togliatti, impoverisca la ricchezza della nostra più recente elaborazione, e conduca ad affrontare con schemi dogmaticamente irrigiditi una problematica profondamente nuova che, oggi, il capitalismo avanzato e l’assetto mondiale impongono e con la quale dobbiamo misurarci. Per questo, non con l’intendo di rinfocolare una polemica, ma neppure per una sollecitazione meramente accademica, vorrei esprimere, sull’argomento, qualche riflessione più meditata e argomentata di quelle contenute nel mio incriminato articolo.
Manifesto/Settimana – martedì 15 gennaio 1974/3
- Discutere della politica dei Fronti popolari significa tentare un bilancio, esprimere, alla luce di un’esperienza consolidata, una valutazione di insieme sulla linea strategica fondamentale che ha guidato, pur in molte versioni e in difformi circostanze, i partiti comunisti europei, dopo che l’ipotesi del primo dopoguerra (estensione del processo rivoluzionario dall’Unione Sovietica a tutto il continente) si era rivelata impraticabile.
Proprio per questo la ricerca non può non muovere, e non essere per intero animata, da un giudizio politico sul presente, dalla consapevolezza di ciò che è oggi, in occidente, il movimento operaio. E tale giudizio, tutti ne conveniamo, non può che essere critico e preoccupato. L’Europa, negli ultimi quarant’anni è stata investita da profondi sconvolgimenti: crisi economiche acute, lunghi periodi di ristagno delle forze produttive e dunque di aspri scontri sociali, il fascismo, un conflitto mondiale che l’ha devastata, la tremenda tensione della guerra fredda, il crollo del suo sistema coloniale. Nel corso di così tremende vicende la classe operaia si è – quasi sempre e quasi ovunque – trovata alla testa di una lotta tenace ed eroica per correggere la logica catastrofica dello sviluppo capitalistico, per difendere la libertà e la pace, per conquistare le più elementari condizione della convivenza civile. E tuttavia in nessuno di questi paesi essa è riuscita a conquistare il potere, a modificare profondamente le fondamentali strutture della società. La rivoluzione socialista nei paesi di capitalismo avanzato è ancora un problema da risolvere.
E non vi è chi non veda come questo ritardo storico si rifletta, pesi gravemente sulla linearità e sulla natura del processo rivoluzionario mondiale. Le difficoltà, e poi gli errori, e infine le lentezze nello sviluppo economico e politico della società sovietica non sono forse state e non sono in buona parte una conseguenza di questo nodo non sciolto? E, oggi, la crisi della unità del movimento rivoluzionario mondiale legata al contrasto sovietico-cinese, non è alimentata forse dal comprensibile scetticismo con cui il mondo sottosviluppato guarda al processo di maturazione della rivoluzione in occidente, troppo lento e contraddittorio per le sue inderogabili esigenze storiche?
C’è di più. La classe operaia europea e occidentale non solo non è ancora giunta al potere, ma appare, oggi, divisa, in buona parte integrata al sistema, partecipe dei suoi illusori progressi e della sua ideologia, comunque incapace, nel suo insieme, a contrastarne validamente e subito le scelte di politica economica e di politica internazionale. La socialdemocrazia, nel proprio processo involutivo, ha fatto un salto di qualità: da forza riformista, velleitaria nel suo disegno rivoluzionario, opportunista nelle sue forme di organizzazione e di lotta, è divenuta forza di supporto consapevole e prezioso del sistema, apparato burocratico sottratto al controllo delle masse, strumento della loro subordinazione. Né, da questa crisi clamorosa, è risultato a sufficienza rafforzato nel numero, nelle alleanze, nella capacità d’iniziativa concreta, il movimento comunista che, in molti paesi europei, rappresenta ancora una minoranza della classe, e una forza di opposizione isolata.
Ora, si può a buon diritto sostenere che tutto ciò è storicamente comprensibile, che si è qui pagato il prezzo di altre decisive conquiste, che l’equilibrio mondiale non è stato finora maturo per una “rivoluzione nei punti più alti”, o che le contraddizioni del sistema non hanno finora qui assunto la acutezza necessaria ad un capovolgimento. Ma la comprensione dei limiti oggettivi, della razionalità di un determinato processo non deve ostacolare l’analisi dei limiti soggettivi, la coscienza delle potenzialità non del tutto espresse, l’analisi di come le difficoltà sono state vissute, con quale consapevolezza critica, di come dunque e in che misura malgrado e attraverso arretramenti non evitabili si è salvata e si è estesa la coscienza, la forza, la vitalità del movimento.
E i suoi ritardi attuali, e le responsabilità mondiali che ne derivano, impongono oggi a tutto il movimento operaio dell’occidente di riflettere su se stesso, sulla propria storia, sulla propria politica. Insistere unicamente sulle difficoltà oggettive significherebbe fornire l’arma decisiva a quanti non credono possibile porre oggi, e per molto tempo ancora, il problema del socialismo in occidente, e assegnano al proletario occidentale un compito di fiancheggiamento della lotta di altri continenti, o di condizionamento subalterno dello sviluppo capitalistico.
È con questa preoccupazione politica di fondo che dobbiamo, a me pare, accostarci al passato, tentarne, per noi stessi e per gli altri, una ricostruzione non apologetica. - Il punto nodale di una analisi della politica dei Fronti, sul quale troppo spesso si sorvola o si pronunciano verdetti sommari, a me pare da ricercare nel rapporto tra quella politica e la linea generale del Comintern sotto la direzione di Stalin. Nella esperienza frontista infatti si riflette profondamente,e in modo significativo, così il valore profondo della strategia staliniana, come pure la contraddizione, il limite insuperato che condusse quella strategia a bruciare non poche potenzialità rivoluzionarie che essa stessa veniva suscitando.
Tutta la politica dell’Internazionale dopo la morte di Lenin si collega strettamente, e a volte si subordina, alla risposta che venne data appunto dal gruppo staliniano al problema del rapporto tra rivoluzione russa e rivoluzione occidentale: e in ogni sua fase dunque noi vediamo in diversa misura espresse sia la verità storica fondamentale di quella scelta, sia il modo non pienamente critico e consapevole con cui prima fu compiuta e poi gestita.
Fino alla morte di Lenin, e anche per qualche tempo dopo di allora, il rapporto tra rivoluzione russa e rivoluzione occidentale era stato nella mente di tutti i bolscevichi di stretta continuità. L’analisi teorica dello sviluppo imperialistico che condotto a vedere nella Russia zarista l’anello più debole della catena, dal quale doveva prendere avvio il processo rivoluzionario non aveva in alcun modo modificato tale ipotesi. E le prime scelte politiche di consolidamento del potere sovietico in attesa del maturare della rivoluzione europea (Brest Litowsk prima, la Nep poi) tendevano solo a colmare una sfasatura di tempi all’interno di un processo continuo attraverso il quale il socialismo dei paesi più progrediti avrebbe fornito le condizioni di un più sicuro e rapido sviluppo della società sovietica.
Per quante citazioni possano essere rintracciate – per provare il contrario – negli ultimi scritti di Lenin, già tormentati dalla coscienza dei negativi sviluppi della rivoluzione europea, resta il fatto che la scelta staliniana del “socialismo in un paese solo” rappresenta una innovazione radicale della strategia rivoluzionaria compiuta di fronte ad una situazione nuova e inattesa.
La verità e la forza dello stalinismo, la sua superiorità storica definitiva rispetto al grande antagonista, il trozkismo, non consiste però solo nell’aver accettato con severo realismo il corso delle cose, nell’aver respinto ogni tentazione avventuristica e schematica, nell’aver espresso la spinta all’autoconservazione del potere proletario sovietico: quanto nell’aver tratto dalla lezione degli anni venti una conseguenza generale e permanente e nell’aver su di essa fondata la strategia di un’intera fase storica. Era la lezione per la quale il fallimento di tentativi rivoluzionari del primo dopoguerra non rappresentava un fatto casuale e transitorio ma esprimeva l’impossibilità oggettiva che tale rivoluzione si compisse con un allargamento della formula sovietica ai paesi avanzati e prima che il rafforzamento del potere proletario in una grande paese rompesse l’egemonia mondiale capitalista. In tutta la politica di Stalin si esprime oggettivamente, dunque, il riconoscimento dell’autonomia della rivoluzione occidentale, della necessità di sperimentare, in essa, nuovi schieramenti, di attendere la maturazione di nuovi processi in ciascun paese e nel mondo.
Di questa verità storica profonda – la cui prova migliore ci viene per contrasto, dalla progressiva incomprensione, dal tragico disorientamento di Trotzky esule di fronte ai successivi sviluppi della situazione politico-sociale dell’occidente – è fuor di dubbio che la politica dei Fronti popolari e nazionali costituisce la più matura e feconda espressione. In essa infatti la scelta del “socialismo in un paese solo” che fino ad allora appariva unilateralmente suggerita dalle necessità interne della società sovietica apparve rispondere alle esigenze vitali del proletariato mondiale, presupposto necessario per impedire lo sbocco catastrofico dello sviluppo capitalistico, e dunque discorso compiutamente internazionalista. In essa, dunque, le due esigenze fondamentali e non sempre coincidenti del movimento operaio europeo – difesa dell’Urss e lotta per la propria emancipazione – trovarono un massimo di unità. Per ciò stesso, ai partiti comunisti fu possibile collegarsi con masse più vaste, rompere la consuetudine alla testimonianza propagandistica, collegarsi alla realtà sociale del proprio paese, costruire dunque un tipo di organizzazione, un sistema di alleanze il cui valore doveva andare ben oltre gli obiettivi e le battaglie per cui erano state costruite. In questo senso, e sul serio, il VII Congresso dell’Internazionale rappresenta una svolta storica decisiva, l’esplicitazione del più fecondo contenuto della strategia staliniana, la premessa di rapporto nuovo e positivo tra la Terza Internazionale e il problema della rivoluzione in occidente. Ma, nello stalinismo, questa verità fondamentale è contenuta solo in modo oggettivo e incompiuto; non diviene mai pienamente consapevole, e dunque non illumina a fondo gli sviluppi dell’azione politica. La scelta del “socialismo in un paese solo”, anche se fondava oggettivamente una nuova strategia, venne in realtà compiuta sotto la pressione delle cose e mai teoricamente elaborata. Se, nel dibattito tra Stalin, Trotzky e Zinoviev, la forza e il realismo politico erano tutti dalla parte di Stalin, egli non riuscì mai a prevalere in modo convincente, con una reale egemonia sui propri antagonisti. Lo schematismo, l’incertezza, le brusche inversioni di rotta, i colpi di forza con cui, intorno al 1930 furono impostati, in una fase decisiva la politica dell’Internazionale, l’industrializzazione dell’Urss e la collettivizzazione delle campagne, sono in grande parte dovute a tale debolezza, a tale non liquidato empirismo.
Né tale insufficienza poteva essere superata; al VII Congresso, perché essa esprimeva, più che gli errori o l’incapacità di un gruppo dirigente, il dramma storico oggettivo della rivoluzione russa. La scelta del “socialismo in un paese solo” che oggettivamente riconosceva l’articolazione del processo rivoluzionario, il valore autonomo e “relativo” della rivoluzione sovietica, per le condizioni in cui avveniva, i costi sociali che imponeva alle masse, il tipo di potere che sollecitava, la lotta politica da cui nasceva, gli interessi che doveva stimolare, l’adesione su cui doveva fondarsi, era fatalmente condotta ad affermarsi come “autosufficienza della rivoluzione russa”. Paradossalmente, proprio la strategia che oggettivamente riconosceva l’autonomia della rivoluzione occidentale, irrigidiva invece il modello sovietico, lo tramutava in uno schema dogmatico e dilatava la solidarietà con l’Urss, giusta premessa di ogni politica rivoluzionaria, nella teoria dello stato e del partito guida destinata a frenare l’articolazione nel movimento comunista.
Qui troviamo, in realtà, la vera contraddizione, l’errore non criticato e forse non criticabile dello stalinismo; la sua incapacità a preparare, stimolare, promuovere nel movimento operaio mondiale la ricerca di quelle nuove forme di passaggio al socialismo che, in paesi diversi, le vittorie dell’Urss stavano rendendo possibili e che pure avrebbero dato un contributo decisivo all’ulteriore sviluppo economico e politico della società sovietica. Non è ora il caso di vedere se e come quella logica potesse essere spezzata, quali e quante responsabilità vi sono storicamente coinvolte, a quali vizi di origine essa va collegata. Importa invece, ai fini della nostra analisi, vedere come essa si è riflessa sulla politica dei Fronti, come cioè tale politica non sia affatto esterna a quel dramma, immune dalle sue conseguenze ma al contrario ne porti visibile il segno, e come infine tutto ciò ha praticamente contato nella storia reale del movimento operaio dell’occidente.
- Su tre punti, in particolare, tale verifica va condotta; punti, del resto, costitutivi della politica dei Fronti: il giudizio sul fascismo, la tattica dell’azione unitaria; il rapporto tra riforme e rivoluzione.
Il giudizio sul fascismo, sulla sua natura, sulle cause della sua vittoria, dal quale muoveva, per intero, il rapporto di Dimitrov al VII congresso del Comintern, pur raccogliendo e sviluppando una ricerca e una elaborazione ormai in corso almeno dal momento della vittoria di Hitler, rappresentava una svolta assai profonda e positiva rispetto alle tesi che avevano sorretto la politica del “terzo periodo”. Esso infatti individuava, nel fascismo, il nemico principale, la minaccia più grave per il movimento operaio; liquidava la schematica identificazione fra democrazia borghese e dittatura reazionaria; caratterizzava la natura di classe del fascismo definendolo dittatura dei gruppi più retrivi e sciovinisti del capitale monopolistico; analizzava con realismo i metodi attraverso i quali esso era riuscito a costruirsi un effettivo seguito di massa; criticava severamente il settarismo comunista che aveva lasciato non poco spazio all’iniziativa fascista e all’opportunismo socialdemocratico. È proprio da questa analisi che derivava direttamente una svolta politica di grande significato: la proposta unitaria alle forze socialiste e a tutti i partiti democratici nella lotta per la libertà e per la pace. E tuttavia, già in quella analisi moti interrogativi, pure essenziali ai fini della azione politica, restavano senza una risposta esauriente.
Cosa era in realtà il fascismo sul piano mondiale? La dittatura aperta e disperata della borghesia internazionale, ormai incapace di garantire altrimenti la sopravvivenza del proprio potere politico e del proprio privilegio sociale (e dunque una soluzione destinata a generalizzarsi nei paesi capitalisti)? Oppure la risposta che certi reparti del capitalismo monopolistico, tormentati da antiche e irrisolte arretratezze, o usciti battuti e senza possibilità di piena ripresa dal conflitto mondiale, davano alle proprie specifiche difficoltà interne e utilizzavano come aberrante strumento di riaffermazione mondiale? E ancora: all’interno dei paesi in cui aveva già vinto, il fascismo rappresentava una dittatura dei gruppi monopolistici che perpetuava sé stessa solo con gli strumenti della violenza o con l’artificio demagogico, oppure poggiava anche si di una alleanza, una mediazione reale tra grande borghesia e strati intermedi privilegiati sostenuta dapprima dalla comune spinta antioperaia e poi dalla follia nazionalista? In che misura dunque, in quegli stessi paesi, il fascismo rappresentava in forma pura e conseguente gli interessi profondi e permanenti del grande capitale? Infine: come e perché, nel corso della crisi assai profonda che al fascismo aveva condotto, la classe operaia non era stata in grado di opporre una propria soluzione positiva? Dove erano le radici oggettive e profonde del persistente tradimento socialdemocratico e dello stesso settarismo comunista? Si poteva ancora, quindici anni dopo la fondazione della III Internazionale, attribuire la sconfitta ai ritardi di organizzazione ed ai difetti di orientamento dei partiti operai, non occorreva chiedersi più seriemente se la soluzione sovietica non era in sé insufficiente a guidare il proletariato occidentale nella sua rivoluzione?
Su tutti questi problemi l’analisi di Dimitrov appare indubbiamente lacunosa, giustamente preoccupata di definire certe linee essenziali di giudizio politico, meno attenta e precisa nella definizione scientifica del fenomeno e della sua dinamica di classe.
E ciò aveva una grande rilevanza anche politica. Il fascismo infatti, nella linea che dal VII congresso prese l’avvio, appare prevalentemente come il punto di approdo necessario e generale della logica capilista giunta alla sua fase estrema. Così che il tratto forse più profondo e decisivo dell’epoca – la divaricazione tra un settore del capitalismo mondiale (soprattutto quello americano) che rispondeva alla crisi del ’29 con una propria riforma interna, e un settore più arretrato che ricorreva alla più facile e più debole soluzione della violenza – restava del tutto estromessa dal quadro politico dell’Internazione. Con una duplice assai grave conseguenza: da un lato il vuoto di elaborazione e di iniziativa nei paesi capitalistici più avanzati, in quel periodo scossi da un grande sconvolgimento e ricchi di autentici fermenti progressivi, ma nei quali la politica frontista non trovò spazio e terreno; dall’altro lato la sottovalutazione, sempre più evidente via via che la crisi mondiale si aggravava, delle possibilità del capitalismo tedesco e italiano di sopravvivere alla caduta del fascismo.
Certo, nel suo realismo e nella sua lungimiranza politica Stalin comprese appieno, quando si giunse al conflitto, il valore e le dimensioni dei contrasti interni al campo capitalistico; ma il fatto stesso di non aver analizzato tale divaricazione nel suo significato profondo, e di non avere a tempo affrontato i problemi politici ad essa connessi, rendeva assai meno incisiva l’egemonia che, sul piano mondiale, la parte socialista poteva assumere nella alleanza antihitleriana.
In sostanza mi pare legittimo dire che la politica del Fronte popolare nasceva intimamente legata ad una analisi del capitalismo come sistema ossificato, incapace ormai di assicurare un reale sviluppo delle forze produttive, di fondare dunque il proprio potere su di una serie di mediazioni sociali complesse nell’ambito delle istituzioni democratico-borghesi, e di reggere alla disgregazione dell’impero coloniale.
Sulla base di tale premessa possiamo meglio comprendere nella sua verità e nel suo limite, il valore e il carattere della politica unitaria che Dimitrov proponeva. Si trattava unicamente di una unità difensiva, preoccupata del mantenimento dello status quo e circoscritta entro i confini della restaurazione borghese; così come volle presentarla la polemica trotzkista? Basta la lettura del rapporto, e di tanti altri scritti (ad esempio quelli di Togliatti sulla guerra in Spagna) per rendersi conto che no.
Forse più tardi, e in alcune situazioni, una siffatta riduzione rischiò di essere compiuta. Ma è certo che nell’ispirazione originaria, e nella linea prevalente, la politica unitaria – nata del resto sotto la suggestione delle grandi lotte di massa francesi – si sforzava di dare alla battaglia antifascista un contenuto sociale, di collegarla ad esigenze vitali dei lavoratori, di dare alle rivendicazioni democratiche una nuova sostanza di classe. Basti ora ricordare la distinzione, sulla quale Dimitrov insisteva, tra fronte unico proletario e fronte popolare democratico: due aspetti e fasi diverse della lotta antifascista; oppure la sua insistenza sulla necessità di individuare rivendicazioni minute e precise attraverso cui collegare alla lotta generale strati sociali diversi. Ma vale soprattutto sottolineare che tutta questa politica unitaria era in ogni momento vista – e di qui se ne valutava l’importanza e il significato – come strumento di mobilitazione, di educazione, di intervento delle grandi masse sulla scena politica. Qui in realtà va ricercato il significato più positivo, l’asse più fecondo per l’avvenire, della politica frontista. In essa e attraverso essa si realizzava, almeno in una parte dei paesi capitalistici, un’esperienza democratica di massa destinata a risultare permanentemente antagonistica dello sviluppo capitalistico in tutte le sue forme e in tutte le fasi a venire.
E tuttavia, quanto alla definizione degli obiettivi concreti di lotta, questo sforzo rimane, nello stesso rapporto di Dimitrov, molto incompiuto. “Man mano che il movimento si sviluppa – egli diceva – e che l’unità della classe operaia si rafforza, dobbiamo andare più avanti: preparare il passaggio dalla difensiva all’offensiva contro il capitale, orientandoci verso l’organizzazione dello sciopero politico di massa”.
Lo sbocco dunque della politica frontista non era per lui – e giova ricordarlo contro tarde interpretazioni – né di spontanea evoluzione al socialismo, né idillico ed evolutivo. Esso doveva mettere capo ad uno scontro di classe più avanzato cui occorreva prepararsi. Ma con quali obiettivi, in che modo, con che forma di lotta?
Qui il discorso si faceva generico, di formule. Mancava una analisi della società europea, della sua struttura di classe, dunque del possibile schieramento di alleanze, e delle forme originali della lotta per il potere. Di riflesso anche gli obiettivi immediati risultano, forse al di là delle intenzioni, assai circoscritti entro l’ambito democratico-borghese. Le lotte sindacali restano in gran parte affidate, per la loro forma, alla spontaneità operaia, e, per i loro contenuti, indifferenti rispetto ad obiettivi di qualità e di potere. L’unità e la lotta del movimento sindacale appaiono in generale supporto e strumento della battaglia politica complessiva. Per i contadini, cui pure ci si richiama, non viene elaborata una piattaforma di lotta, un ventaglio di rivendicazioni, immediate e meno immediate, di riforma proprietaria e di politica agraria. La politica economica di eventuali governi di coalizione – che pure si andava concretamente sperimentando – non viene affatto discussa e precisata nei suoi principi e nei suoi contenuti. Nel complesso, dunque, si rompe lo schematismo di una forza minoritaria, si gettano le basi di un movimento di massa, che si inserisce quotidianamente nella realtà e stabilisce molteplici legami. Un movimento però che resta in parte indifferenziato, nel quale la funzione dirigente del proletariato non appare compiutamente definita se non come quella della forza più attiva e conseguente nel portare avanti gli obiettivi comuni. Siamo ancora lontani, nei principi e nella pratica, dal concetto gramsciano di egemonia e di blocco storico.
A questa insufficiente definizione degli obiettivi più avanzati della lotta unitaria di massa corrispondeva, logicamente, una determinata risposta al problema del passaggio al socialismo e della gestione del futuro potere proletario: quella, appunto, per cui lo sbocco della crisi cui la politica frontista avrebbe alla fine condotto doveva nella sostanza riprodurre lo schema della esperienza sovietica.
Vi corrispondeva, si badi, in un duplice senso. Da un lato, infatti, l’accettazione da parte del movimento comunista occidentale, del modello sovietico esprimeva, nelle forme possibili e nelle condizioni storiche date, l’esigenza profonda e insopprimibile di porre l’unità con il primo paese socialista, e la sua difesa, come cardine di tutta la politica operaia in occidente, la premessa senza della quale ogni lotta perdeva senso ed efficacia. L’adesione al modello sovietico era, in questo senso, certo anche la causa delle difficoltà di una ricerca creativa intorno agli originali terreni della lotta di classe in occidente, e però anche la garanzia che le insufficienze e contraddizioni di tale lotta non conducessero mai il movimento su posizioni socialdemocratiche e opportuniste. Ma – d’altro lato – questa sovrapposizione, alla politica unitaria, dello sbocco classicamente sovietico di conquista e di gestione del potere, esercitava un condizionamento assai pesante nello sviluppo e nella efficacia di quella linea. Essa ostacolava un’analisi originale sulla struttura della società occidentale, impediva una ricerca creativa intorno alle forme di passaggio al socialismo; restringeva la possibilità di incontro e di alleanza permanente, nel corso stesso della lotta, con altre forze politiche e sociali; infine, e forse soprattutto, tendeva a creare, nel movimento comunista internazionale, un rapporto tra i partiti, e un regime interno a ciascuno di essi, che ostacolavano seriamente il loro sviluppo. Si può forse dimenticare che quello fu appunto il periodo della gestione più dura del regime politico staliniano? Che la svolta del VII congresso, anziché precludere una maggiore articolazione e una più vivace ricerca tra i partiti e nei partiti, inaugura il periodo più drammatico dei processi, dei sospetti, delle incessanti epurazioni?
Tutto ciò nella strategia elaborata allora si riflette, è presente: il rapporto tra riforme e rivoluzione, tra democrazia e socialismo, tra potere proletario e schieramento di alleanze restava sostanzialmente quello classico, sperimentato nell’ottobre, e anzi “corretto” dalla successiva polemica antitrotzkista. Un rapporto cioè che permaneva estrinseco: in cui le lotte democratiche, gli obiettivi intermedi, le alleanze, dovevano servire a porre in crisi il sistema capitalista e a condurre il proletariato al potere. Il loro contenuto reale resta, in massima parte, legato all’incompiutezza della rivoluzione borghese di cui fondamentalmente si alimentavano. Le riforme non avevano un carattere prefigurante, un carattere democratico e socialista insieme. Il potere socialista doveva aprire un capitolo assolutamente nuovo, assai più che sviluppare e realizzare ciò che la lotta era venuta costruendo; essere il frutto della impossibilità del capitalismo a sopravvivere, piuttosto che lo strumento di un progetto positivo di trasformazione della società già articolato e maturo. Il salto rivoluzionario non poteva che essere violento, e il potere proletario doveva disporre degli strumenti di dominio necessari per attuare un disegno di trasformazione sociale profondamente prematuro nelle cose e nelle coscienze.
Ecco, dunque, perché mi pare legittimo parlare, con tutte le cautele e le precisazioni necessarie, di un carattere prevalentemente difensivo della politica frontista, di una illiquidata rigida distinzione, in essa, fra democrazia e socialismo, dunque di una unità realizzata sul “minimo comune denominatore”.
Non nel senso dunque che essa si sia mai ridotta a garantire puramente la “difesa della libertà dalla minaccia fascista”, in ciò esaurendo la sua storica funzione. Poiché al contrario, l’abbiamo detto, nel vivo di quella lotta venne costruendosi un movimento, fu compiuta un’esperienza, si estese una partecipazione del popolo alla vicenda politica, che ponevano le premesse indispensabili per ulteriori sviluppi, aprivano inesplorate prospettive.
Ma nel senso, più profondo, che quella politica, anche per il suo limite intrinseco, non fu mai in grado di reggere al passaggio delle fasi prevalentemente difensive a quelle offensive, dall’opposizione al potere.
Se ogni volta, in quei momenti, una crisi rapida e verticale investì lo schieramento unitario lasciando spesso sopravvivere ben poco del grado di autonomia e del livello di coscienza già raggiunti, ciò era dovuto – ecco quanto ho cercato di dimostrare – anche ai limiti soggettivi della politica frontista. Essa era, insomma, difensiva non solo e non tanto perché nata in una fase storica in cui la difesa era il primo e vitale obiettivo; ma perché, in parte almeno, come tale era di fatto concepita e vissuta; perché nel corso della difesa non si metteva in moto un adeguato processo di aggregazione politica, non veniva definendosi un reale programma di trasformazione della società così da poter poi affrontare con successo i problemi della pace e del potere.
Solo quando, dove, e nella misura in cui, lo schema della politica frontista venne criticato e superato nel suo limite originario il movimento comunista riuscì a sviluppare ulteriormente le possibilità nuove aperte dalla vittoria sul fascismo. La storia del partito italiano, dei suoi ritardi e delle sue vittorie, – soprattutto nel dopoguerra – è proprio storia di questo sforzo di adeguamento critico, complesso e difficile che fu compiuto per un verso da Gramsci, per l’altro da Togliatti.
In conclusione, a me pare che nella politica unitaria e antifascista del movimento comunista, sia stata costantemente presente una tensione, una contraddizione non risolta, tra la ricchezza del movimento, la potenzialità rivoluzionaria che quella lotta conteneva e moltiplicava; e la piattaforma teorica e politica che tale lotta doveva dirigere fornendole un’adeguata prospettiva. Il settimo congresso bastò ad avviare un processo, ma non a interpretarne tutto il significato, a egemonizzarne tutte le energie. A maggior ragione esso può fornire oggi un’ispirazione, ma non una risposta adeguata per i problemi che la situazione propone al movimento rivoluzionario.
- Sarebbe molto utile e importante sottoporre questo giudizio di insieme, condotto finora soprattutto attraverso una analisi di concetti, ad una verifica e ad un approfondimento attraverso la ricostruzione storica dell’esperienza frontista nel suo lungo e complesso itinerario; vedere cioè se, come e in che misura i limiti che abbiamo ritenuto di individuare hanno concretamente operato.
Ma non è un’impresa che sia qui possibile; e del resto occorrerebbe per essa approntare, attraverso una ricerca paziente, tutti i materiali necessari; anche se la letteratura sull’argomento, almeno fuori dall’Italia, appare già oggi ricca di analisi serie e di esauriente informazione.
Vorrei dunque ora schematicamente richiamare, e più nella forma di ipotesi di lavoro che non in quella di tesi consolidate, solo alcuni punti di quella storia all’interpretazione di quali il discorso qui fatto può recare qualche contributo e che a tale discorso paiono portare una prima conferma.
a) Innanzitutto mi pare giusto che ci si sforzi di approfondire l’analisi storica con cui solitamente si affronta il problema della politica del “terzo periodo”, sul quale anche Sereni torna a soffermarsi.
Da parte nostra soprattutto, credo che non si debba sostituire ad un giudizio acriticamente positivo dato altre volte su quel periodo della storia del partito, un atteggiamento liquidatorio sbrigativo e altrettanto unilaterale. Troppo seriamente quel periodo ha pesato nella storia dell’internazionale comunista, e del partito italiano (è di allora la sola crisi seria nel gruppo dirigente, e poi la dura vicenda della ripresa di attività del centro interno) perché si possa liquidarlo senza un serio sforzo critico.
Occorre perciò a mio avviso da un lato respingere la tesi ricorrente e facilona secondo cui si espresse allora nel modo più estremo, e si concluse nel modo più negativo, tutta una fase iniziale, fatalmente infantile e settaria, della storia dell’Internazionale: una sorta di canto del cigno del trotzkismo e del bordighismo. La politica del terzo periodo viene infatti dopo anni di sforzi tenaci per avviare una politica di fronte unico proletario, e soprattutto dopo una fase in cui l’Internazionale, sotto la direzione di Stalin e di Bucharin, aveva sperimentato, ad esempio nel corso della rivoluzione cinese, una tattica molto aperta e spregiudicata di alleanze politiche e sociali, che aveva non pochi tratti comuni con la successiva politica frontista, esponendosi ad una critica, non priva di vigore e di argomenti, della opposizione trotzkista. Il “terzo tempo” segnò dunque una svolta, compiuta d fronte a fatti e situazioni che si giudicavano nuovi: e come tale ne vanno ricostruiti i moventi e il significato.
Altrettanto necessario appare, però, respingere la tesi classicamente trotzkista – forse meno inconsistente ma certo gravemente unilaterale – secondo cui quella svolta fu solo il riflesso sul piano internazionale della rottura, avvenuta nell’Urss, tra Stalin e Bucharin sui temi dell’industrializzazione forzata e della collettivizzazione nelle campagne; e come tale giungeva ormai in ritardo, quando la situazione mondiale era compromessa da troppi errori e sollecitava semmai un’altra e meno avventurosa politica.
Il fatto è, a mio avviso, che la linea del “terzo tempo” esprimeva, in modo assolutamente erroneo e insufficiente, la consapevolezza di un dato reale: la crisi della società capitalistica europea; crisi profonda, non solo economica ma politica e ideale, dalla quale non si poteva uscire positivamente se non trovando la via per uno sbocco rivoluzionario capace di risolvere i tremendi problemi dell’economia di quei paesi e dell’equilibrio internazionale.
Non aver capito che il fascismo sarebbe stata la soluzione reazionaria di quella crisi; non aver utilizzato la lotta contro quella minaccia come terreno di avvio per un nuovo incontro con le forze socialdemocratiche e radicali, rappresenta – come ha detto molte volte Togliatti – l’errore, la responsabilità storica del Comintern in quegli anni. In tal senso la polemica di Trotzki contro la tattica adottata di fronte al nazismo nascente e il suo invito di allora ad una tattica di unità antifascista, appaiono giustificati e preveggenti. Ma lasciano anche essi un’impressione di contraddittorietà e di superficialità. Poiché una tattica di unità antifascista, prima della vittoria di Hitler e nel pieno della crisi della società tedesca, avrebbe dovuto proporre un programma positivo, essere in grado reggere, una soluzione rivoluzionaria. Ed era questo il limite più profondo, ma anche quello meno facilmente superabile, del movimento operaio di allora. La politica del ’34 in Francia non poteva facilmente e semplicemente “essere anticipata” al ’32 in Germania. Qui sarebbero occorse, per fronteggiare il pericolo, soluzioni più difficili e sbocchi più avanzati.
Non per caso quindi, per equivoco ed errore superficiale, ma per una logica più profonda la politica dei Fronti popolari si impose dopo e non prima della vittoria del fascismo in alcuni paesi, e nacque dunque come politica “difensiva”.
b) Anche sull’esperienza, decisiva, del Fronte popolare francese sentiamo ormai l’esigenza di un’analisi più approfondita che valga a spiegare insieme l’enorme slancio da cui nacque e la sua rapida e radicale sconfitta; e che soprattutto ci permetta di valutare quanto quella sconfitta abbia poi pesato nella storia successiva della sinistra europea.
In quella vicenda cogliamo forse più nettamente che in ogni altra la tensione irrisolta tra le spinte di massa, la pressante richiesta di misure di trasformazione dell’ordinamento sociale, la presenza della classe operaia unita ed entusiasta alla testa della lotta, e la deludente piattaforma politica e programmatica su cui si attestò il governo di coalizione.
Il fronte nacque nel vivo di una crisi economico-sociale, ripercossasi con ritardo dall’America alla Francia, e dunque assunse subito e direttamente la forma di una lotta per l’occupazione, per il salario, per il controllo operaio, contro la speculazione e i sovraprofitti, si intrecciò ad un possente e vittorioso movimento sindacale, suscitò un clima di entusiasmo popolare di cui la lotta contro la minaccia del colpo di mano fascista era stata solo l’occasione e l’avvio. Ma nell’atto in cui esso vinse la sua battaglia di opposizione iniziarono e procedettero con un ritmo impressionante l’involuzione, la paralisi, la disgregazione. Esso si scontrò, al governo, con le strutture portanti del capitalismo francese e con l’equilibrio internazionale: sciopero dei capitalisti e fuga dei capitali all’estero, crisi finanziaria e crollo degli investimenti e dell’occupazione, ricatto della politica moderata inglese e dello status quo e del non intervento. Di fronte a questi scogli, che sollecitavano misure assai radicali, un programma assai organico, una volontà politica molto chiara, il governo di Blum non solo uscì sconfitto ma si può dire non abbia neppure accettato battaglia. Esso si trascinò di rinvio in rinvio, lasciò che la situazione marcisse, che il movimento di massa defluisse nello scoraggiamento, che l’apparato burocratico-militare e le forze moderate riprendessero il controllo dei centri di potere, che la rivoluzione spagnola finisse soffocata dall’intervento tedesco e italiano. Basta ricordare le tappe di questa crisi, ripensare alla incertezza con cui la sinistra francese la visse, per vedervi espresse proprio le debolezze del frontismo di cui abbiamo parlato: la timidezza ormai paralizzante dell’ala socialdemocratica, e anche la condiscendenza comunista a separare l’oggi dal domani, ad eludere un discorso sulle scelte incalzanti perla gestione della politica economica.
Certo si può e si deve considerare che, nell’equilibrio del mondo di allora, e al punto di maturazione della società francese in quel momento, l’arretramento di quel movimento era scritto nelle cose. Ma ciò che conta è soprattutto valutare come quell’esperienza unitaria fu vissuta, come nel corso di essa furono preparate più mature battaglie, come da quella sconfitta uscirono le forze della sinistra e a quale livello di unità e di autonomia rimase la coscienza delle masse. Ed è proprio questa valutazione a sollecitare un giudizio criticamente lucido. La socialdemocrazia francese uscì da quella grande esperienza disgregata e rinunciataria; piegò il capo, poco dopo, al tradimento filofascista delle forze moderate, si lasciò trascinare in una forsennata campagna anticomunista e si ripresentò infine, malgrado l’esperienza resistenziale, sulla scena politica del dopoguerra con il “socialismo” “umanitario” e “riformato” dell’ultimo Blum e con il burocratismo atlantista del primo Mollet. Il partito comunista francese non riuscì a sua volta ad allargare e consolidare lo schieramento delle proprie alleanze; sostenne la pressione di una offensiva persecutoria; e, al momento del patto russo-tedesco, di fronte al quale non seppe dare un giudizio realistico né elaborare una politica articolata – si lasciò trascinare in un atteggiamento di “neutralità” rispetto alla guerra con la Germania che compromise poi in parte, malgrado il carattere eroico della sua lotta, la natura e l’orientamento della Resistenza in Francia.
Più in generale, tutta la sinistra europea non era riuscita, attraverso l’esperienza della Francia e della Spagna, ad impostare una ricerca per il futuro, a gettare fondamenta abbastanza solide per una nuova e permanente unità. L’unità antifascista dovette così ricostituirsi nei primi anni del conflitto mondiale, potendosi certo richiamare a precedenti imponenti ed eroici, ma senza il retroterra di un’esperienza consolidata, di un discorso positivo in sviluppo: ripartendo cioè nei propri contenuti e nella propria ossatura organizzativa quasi dal nulla.
Come non vedere in questo bilancio anche il riflesso di una insufficienza di linea, di una difficoltà endemica sia a rendere precisi e incisivi gli obiettivi immediati di lotta, che a portare avanti unitariamente una ricerca sul contenuto di classe e sul futuro socialista dell’azione antifascista? E come non comprendere quanto ciò possa avere pesato , come dato ormai oggettivo e non modificabile, sugli sviluppi della lotta antifascista durante la guerra, e della politica di ricostruzione dopo la vittoria?
c) Un altro nodo storico dell’esperienza frontista sul quale occorre riflettere e rispetto al quale sentiamo tutti di dover superare schemi invecchiati e contrapposizioni polemiche ormai sterili, mi pare quello della crisi dell’unità antifascista nel secondo dopoguerra.
In una situazione di crisi generale e acutissima della società borghese le masse avevano compiuto un’esperienza estremamente impegnativa ed avanzata. Soprattutto in alcuni paesi, come l’Italia, la lotta al fascismo e al nazismo era divenuta una guerra di popolo che, come tutte le guerre di popolo, univa al più alto livello un elemento fortissimo di unità nazionale fra gruppi sociali e politici diversi, con un preciso carattere economico-sociale, con la manifesta egemonia di una classe determinata. In questo caso, la classe operaia, e i partiti rivoluzionari. La Resistenza italiana – come, con altre caratteristiche e altri sbocchi, quella jugoslava – ha inciso tanto profondamente nella storia del paese da non poter poi essere riassorbita in un ventennio di restaurazione borghese e di sviluppo capitalistico, proprio per il fatto di aver coinvolto in un’esperienza decisiva masse enormi, di aver suscitato ideali e speranze di riscatto umano e sociale, di aver fatto sperimentare a milioni di uomini un modo di vivere e di lottare che in ogni forma e in ogni contenuto era una rottura con il passato, con la società borghese. Ed è in tal senso che ci appare non solo falsa sul piano storico, ma negativa sul piano politico ogni tendenza, volgarmente estremistica, che tenda a svalutare il significato e il peso di quella fase della nostra storia, a definirla come una lotta puramente “interna al sistema”, nobilitata solo dall’immensità dell’eroismo e del sacrificio popolare. Ma, proprio se si è pienamente consapevoli del contenuto estremamente ricco della Resistenza italiana non si può evitare di chiedersi se, al di là dei condizionamenti oggettivi posti dall’equilibrio internazionale o dalla presenza pesante della Chiesa cattolica, anche in una insufficienza e in una debolezza delle forze politiche e ideali che diressero quel grande movimento debba essere ricercata una parte delle cause che determinarono, tra il ’45 e il ’47 una crisi inaspettatamente rapida e radicale della unità popolare e antifascista.
Occorre qui sbarazzare il terreno da una falsa polemica tra chi rimprovera ai partiti operai di non aver proseguito con coraggio, in una situazione favorevole, sulla via insurrezionale per imporre una soluzione socialista, e chi, respingendo con doviziosi argomenti tale infantile obiezione, finisce con l’evitare e negare l’esistenza stessa del problema.
L’interrogativo reale, sul quale sarà utile una più seria ricerca è un altro. Perché non si è riusciti, nel corso della Resistenza e poi negli anni immediatamente successivi ad avviare, in condizioni così favorevoli, e con una così potente spinta di massa, un dialogo fecondo tra tutte le forze progressive che facesse uscire il movimento dall’alternativa sterile tra “democrazia popolare” e “restaurazione borghese”?
E tale interrogativo rimanda direttamente a due ordini di questioni. Da un lato impone di risalire più indietro nella formazione dello schieramento antifascista, di ricercare cioè nelle contraddizioni e nei limiti dell’anteguerra non poche delle cause delle difficoltà della fase successiva. In questo senso un discorso sulla Resistenza che – come spesso accade – la isoli dall’intero processo storico nel quale è collocata, è destinato a precludersi la comprensione di aspetti decisivi. Al contrario è proprio ricostruendo il disegno di assieme che si verifica come alcuni scogli e alcune difficoltà del movimento, che in una certa fase apparvero come dati oggettivi, impedimenti non rimovibili, fossero in realtà anche il risultato di limiti soggettivi precedenti, di occasioni mancate, di potenzialità inespresse e bruciate.
Dall’altro lato, lo stesso interrogativo spinge ad una analisi più attenta intorno ai contenuti programmatici, al discorso sul futuro, all’orientamento ideologico che, nel corso della Resistenza, caratterizzarono la formazione delle nuove forze politiche e, dopo la vittoria, fecero la loro prova nei governi di coalizione. È un esame in gran parte trascurato, per il quale occorre spesso una ricerca di prima mano e un primo sforzo di interpretazione. E tuttavia alcuni elementi balzano subito agli occhi.
L’estrema genericità, la grande incertezza, innanzitutto, anche nelle forze più avanzate, intorno allo sbocco per il quale si lavorava, al disegno programmatico sul quale ordinare l’azione del dopoguerra. Nella parola d’ordine “innanzitutto la vittoria sul fascismo” non si rifletteva solo la giusta esigenza di non precorrere i tempi, di non creare in anticipo divisioni in una schieramento che unito doveva combattere; ma anche una reale confusione sui fini e gli obiettivi più lontani. E tale incertezza, questo affidarsi allo sviluppo delle cose e alla spontaneità del movimento, non esprimevano a loro volta solo il carattere ancora iniziale, sperimentale, dell’unità di forze diverse impegnate in un primo sforzo di ricerca, ma, in gran parte, il permanere, all’interno dello schieramento antifascista, di difformi e divergenti posizioni intorno agli obiettivi del domani, possedute da ciascuno nella forma più elementare, estrema, incomponibile. Le forze politiche fondamentali uscirono dall’esperienza della Resistenza senza aver avviato un dialogo promettente e senza aver a sufficienza riqualificato la propria fisionomia ideale e organizzativa nel corso di tale esperienza unitaria. Estremamente significativo, ad esempio, e troppo sovente dimenticato, è il fatto che il movimento cattolico sia uscito dalla Resistenza con un atteggiamento morale e civile estremamente avanzato, ma con posizioni programmatiche, con un rapporto con le masse popolari, con un tipo di classe dirigente spesso più arretrati di quelli del primo dopoguerra. La giovane sinistra democristiana sortì allora d’improvviso dal chiuso dell’antifascismo dei circoli religiosi e ricreativi, senza contatto alcuno con la cultura e la scienza sociale moderna. I vecchi notabili che ripresero la direzione del partito cattolico si richiamavano alle correnti moderate e centriste del vecchio partito popolare. E proprio questo spiega invece, in gran parte, come sia stato poco dopo possibile al mondo cattolico operare un radicale capovolgimento nella sua collocazione politica e sociale senza pagare alcun prezzo rilevante né per la sua unità né per il suo seguito di massa.
E come uscì dalla Resistenza la sinistra operaia? Essa certo risentiva assai meno di quella francese della crisi delle esperienze unitarie dell’anteguerra. In compenso però pagava il prezzo di una lunga clandestinità, di una organizzazione di massa improvvisata, di una classe dirigente uscita da esperienze e ambienti assai diversi. Basta forse la lettura degli scritti, dei documenti di allora, troppo spesso dimenticati, per cogliere subito il carattere estremamente generico sia delle analisi che dei programmi. Anzi, di più: per cogliere la fragilità del retroterra culturale, degli strumenti ideologici. Anche il marxismo degli anni trenta, appare, al paragone, assai più ricco di esigenze “scientifiche”, fondato su analisi e categorie più rigorose.
Tutto ciò, certamente, aveva origini storicamente precise, era legato a limiti oggettivi della storia d’Italia e di quella del mondo. Ma vi si può cogliere, anche, a mio avviso, il riflesso di insufficienze e di ritardi della linea politica di quel momento della sinistra rivoluzionaria, quelli appunto classicamente legati alla strategia del fronte popolare. Quali furono infatti le debolezze maggiori del Fronte antifascista giunto al potere? A me pare: la incapacità di avviare un discorso reale intorno alle caratteristiche nuove di una rivoluzione socialista in occidente, in posizione autonoma rispetto all’esperienza sovietica; e l’estrema genericità e improvvisazione degli obiettivi programmatici sul terreno della gestione economica. E al fondo di entrambe quelle debolezze ritroviamo, del resto più volte espressa, la convinzione che il capitalismo italiano era giunto all’estremo, che la società borghese era destinata a vedere approfondirsi immediatamente la propria crisi e, non potendo ricorrere ancora una volta al fascismo, doveva necessariamente, per lo spontaneo maturare delle cose lasciar luogo ad un altro sistema. Muovendo da quella convinzione, ogni sforzo di definizione programmatica rigorosa per l’immediato, e di ogni prospettiva precisa per l’avvenire parevano una pedanteria, un voler porre le brache alla storia, impoverendo e immiserendo la spinta e la creatività del movimento. Accadde invece che la crisi del sistema, sul piano interno e internazionale, economico oltre che politico, si rivelasse meno incomponibile di quanto si pensava, e anzi che la caduta del fascismo, sia pure tra mille contraddizioni e ad alto prezzo, spingesse il capitalismo italiano sulla via dello sviluppo economico moderno.
È ben vero che la politica di Togliatti – non solo e non tanto la svolta di Salerno, che in fondo applicava con felice invenzione un modulo ormai classico, quanto la politica portata avanti dopo la liberazione di Roma e all’assemblea Costituente – rappresenta lo sforzo più originale e incisivo che in occidente si sia compiuto per contrastare la crisi dell’unità antifascista e per contenerne al massimo le conseguenze sul movimento di massa. Ma ciò avvenne proprio come tentativo di rinnovamento e di sviluppo qualitativo degli schemi tradizionalmente elaborati dal VII Congresso e ancora presenti nella resistenza. Unità dei partiti di massa come alleanza permanente di forze politiche diverse per la edificazione di una nuova società; trasformazione dell’ordinamento sociale attraverso grandi riforme di struttura nel quadro di un ordinamento democratico; coesistenza e dialogo con la Chiesa cattolica come premessa di una larga unità popolare; formazione di un partito comunista di tipo nuovo, di massa: tutti questi elementi costitutivi della politica togliattiana subito dopo la guerra innovano, in forma più o meno esplicita, lo schema frontista, tendevano a costruire una nuova strategia in cui più intimo appariva il nesso democrazia-socialismo, il modello sovietico veniva assunto meno meccanicamente, le alleanze politiche e sociali acquistavano un carattere più permanente, un respiro più vasto, gli obiettivi dell’unità divenivano più avanzati.
Comunque, questo sforzo non raggiunse appieno il proprio obiettivo. Il nuovo discorso togliattiano si rivolgeva ad un mondo politico impreparato, non disponeva di un partito in grado di interpretarlo e attuarlo tempestivamente, né di un movimento di massa adeguato ai nuovi obiettivi di lotta. Non solo: ma, anche negli scritti e nei discorsi di Togliatti si avviava allora una ricerca e una fase nuova, ancora embrionale, ancora necessariamente tessuta solo di possenti intuizioni. Occorre anche qui, a me pare, cercare di sfuggire la apologia e gli schemi agiografici. Dal 1944 al memoriale di Yalta vi è tutta una storia, creativa e feconda, del pensiero di Togliatti e di tutta l’elaborazione del partito, in cui prende forma un nuovo giudizio sul capitalismo, si ritrova il gusto dell’analisi economico-sociale, si elaborano piattaforme di lotta e obiettivi di riforma, si afferma un rapporto nuovo con la rivoluzione di ottobre. Tutto questo, all’indomani della guerra, era ancora assai fragile e carente nella politica del partito, mentre già la situazione storica oggettiva sollecitava ed esigeva proprio una risposta a questo livello.
Come non vedere dunque, anche in quel nodo storico, il peso di un limite soggettivo della politica frontista che proprio allora, e per opera di Togliatti, si incominciò, pur senza bruschi rovesciamenti e senza rotture, a criticare e a superare?
Anche qui, il punto non è tanto di stabilire, astrattamente, se la vicenda potesse avere un esito diverso ed opposto, ma piuttosto di valutare se tutte le potenzialità furono colte, se la linea della sinistra era adeguata a coprire tutto lo spazio disponibile; o se, al contrario, come stiamo sostenendo, la politica dei Fronti sia stata ancora una volta in grado di mantenere aperta una situazione, di rendere il movimento forte e vivo, ma non di fargli assumere una piena egemonia sul processo reale.
Seppe allora il movimento operaio occidentale assumersi tutte le responsabilità necessarie, giocare tutte le carte di cui disponeva in uno scontro dal cui esito dipendeva il successivo sviluppo mondiale? - Negli ultimi anni il movimento operaio italiano (ed anche, in forme dissimili ma di analogo significato, quello francese) ha vissuto e sta ancora vivendo un’esperienza complessa che getta nuova luce, e sollecita un giudizio rigoroso sulla politica frontista.
Dopo il 1953 l’equilibrio economico e politico su cui si era riconsolidato il potere borghese è stato gravemente turbato: modificazioni radicali della struttura produttiva, sconvolgimento dei tradizionali rapporti sociali, spostamenti massicci di popolazione, disgregazione del tessuto politico, trasformazione dell’apparato di potere statale e dei centri di decisione economica, mutamenti del sistema dei rapporti internazionali.
Per lungo tempo le forze politiche e sociali dominanti non hanno saputo dare ai pressanti problemi che così si ponevano in ogni settore della società una risposta comunque adeguata, costruire un nuovo equilibrio. E, nel corso della lunga crisi che ne è seguita, si è venuto sviluppando un imponente e unitario movimento di massa, uno schieramento assai ampio di forze politiche intorno a obiettivi di riforma significativi e molto spesso comuni, uno spostamento deciso verso sinistra del corpo elettorale.
Quando però questo movimento di opposizione ha finalmente stretto le forze moderate alle corde, è riuscito ad imporre nuove soluzioni di governo, la sua unità si è venuta affievolendo, i propositi riformatori sono svaniti, il linguaggio comune si è confuso e si è nuovamente imposto un equilibrio di potere sostanzialmente conservatore. Parrebbe il ripetersi, in forme nuove, di antiche ormai note esperienze.
E invece è accaduto e sta accadendo qualcosa di molto nuovo. Innanzitutto già nel corso della lunga crisi del centrismo, mentre la pressione di massa unitaria pareva crescere nel paese, abbiamo visto via via determinarsi tutti i presupposti della manovra trasformistica: lo sviluppo di una accorta proposta politica di ricambio in una parte decisiva dello schieramento conservatore; il progressivo cedimento verso un discorso politico discriminatorio e una piattaforma programmatica di scadente compromesso in un settore importante dell’opposizione. Proprio per questo, in tutto il corso della vicenda, le leve fondamentali del potere non sono mai uscite dalle mani delle forze dominanti e l’operazione di ricambio si è avviata senza rilevanti soluzioni di continuità negli equilibri politici e sociali. Quando al centro-sinistra infatti si è posto mano (1962), anzi quando se ne è seriamente cominciato a parlare (1960), i giochi fondamentali, all’interno della Dc e del Psi, erano in buona misura già fatti, consolidati i meccanismi che avrebbero governato l’intero esperimento.
In secondo luogo, e ciò appare ancora più significativo, il fallimento delle illusioni riformiste, la controffensiva capitalistica, l’aggravamento delle contraddizioni economiche e sociali, l’involuzione insomma clamorosa su ogni piano del centro-sinistra, anziché provocare una positiva “chiarificazione”, una ripresa dell’antico schieramento unitario, e anzi uno spostamento verso sinistra di nuove forze politiche e sociali, si è accompagnato con un logoramento dei legami unitari, con una crisi grave del partito socialista, con una paralisi della sinistra cattolica, con un vero decadimento del discorso politico e programmatico dello schieramento progressivo nel suo insieme. In altri termini – a differenza del passato – la tradizionale unità frontista ha cominciato a logorarsi seriamente ben prima che si giungesse allo scontro decisivo e, dopo di esso, tale processo si è accelerato.
Non si tratta del resto solo di un fenomeno italiano: in Francia il colpo di stato e il potere personale gollista non hanno condotto ad una ripresa dell’unità della sinistra e tanto meno ad una riedizione del Fronte popolare; in Germania il volto apertamente retrivo del potere borghese ha sollecitato una accelerazione del processo di integrazione della socialdemocrazia; perfino nella Spagna, fascista e arretrata, l’unità delle opposizioni appare incerta e precaria nei contenuti e negli obiettivi.
Si esprime in tutto ciò, a me pare, qualcosa di assai più complesso e profondo che non la crisi di un determinato schieramento di forze politiche o di una certa piattaforma programmatica; giunge a maturazione un problema che è all’origine di tutte le passate insufficienze della politica frontista ed è stato comune alla strategia di tutte le correnti del movimento operaio. Fino ad oggi, infatti, le rivoluzioni si sono compiute, e anche le grandi lotte di opposizione sono state condotte soprattutto in quei paesi, e di fronte a quei problemi che erano in qualche misura collegati alla incompiutezza della rivoluzione borghese e dei rapporti di produzione capitalisti: il nocciolo del sistema, la sua intima natura dovevano e potevano essere investiti solo in quanto ostacolavano la soluzione di antichi problemi, o utilizzavano come alleati della propria inguaribile debolezza la permanenza di sedimentazioni preborghesi. La crisi della politica frontista, come del resto la ben più evidente e clamorosa crisi della socialdemocrazia a me paiono legate proprio al fatto che ormai in tutto l’occidente il movimento operaio deve invece fare i conti con il capitalismo maturo; con un capitalismo cioè in cui le vecchie arretratezze, quando non vengono eliminate, sono rigorosamente assunte nel quadro del sistema, e in cui si moltiplicano nuovi aspetti di privilegio, nuove strutture autoritarie, nuove forme di spreco ma come aspetti e strumenti del capitale e del suo dinamismo.
Passaggio al capitalismo maturo significa infatti, e concretamente ha significato anche nel nostro paese soprattutto tre cose, tutte estremamente rilevanti per il problema di cui ora discutiamo.
Innanzitutto dobbiamo registrare la fine di quel sistema produttivo immobile, malthusiano, autarchico, rispetto al quale la politica antifascista era nata e aveva fatto le sue prove. E l’accentuato dinamismo, la continua espansione delle forze produttive (che la crisi attuale non ha del tutto annullato e non annullerà) non solo comporta il determinarsi di margini economici – spesso limitati e precari – per manovre di redistribuzione del reddito o per una politica di pieno impiego, ma anche e soprattutto mette in opera una rete possente di meccanismi di integrazione sociale e ideale a tutti i livelli, nella produzione e nel consumo, nella vita culturale e in quella politica. Gli interessi e le forze che restano, in questo quadro, rigidamente esclusi, verso i quali non opera alcun meccanismo di integrazione, sono prevalentemente quelli marginali rispetto alla struttura economica e al sistema di potere. Viene pertanto meno il cemento principale dell’unità frontista: la lotta comune contro un equilibrio di potere incapace di assicurare comunque uno sviluppo della società, costretto a ricorrere alla violenza politica e alla guerra per coprire la propria debolezza sociale, la propria incapacità di mediare a qualsiasi livello gli interessi di una maggioranza reale.
In secondo luogo e conseguentemente, il capitalismo maturo se pure non comporta – come già si è detto – l’eliminazione delle vecchie e tradizionali contraddizioni sulle quali ha poggiato la lotta del movimento operaio (livelli salariali e di occupazione, squilibri regionali e settoriali) toglie loro in parte l’originario carattere esplosivo e affianca loro, nei settori decisivi della società, contraddizioni altrettanto gravi e generali quali l’intensificazione dello sfruttamento, l’alienazione crescente del lavoro, lo svuotamento della democrazia rappresentativa, la disgregazione della società civile, la subordinazione ai paesi capitalistici più avanzati. E tali nuove contraddizioni, di cui tutti cogliamo il peso decisivo, hanno caratteri qualitativamente nuovi; nel senso che non possono acquistare reale rilevanza politica, né trovare effettiva soluzione nell’ambito di una prospettiva interna al sistema.
Da un lato, infatti, esse contrappongono al sistema esistente esigenze e bisogni che non affiorano spontaneamente nella coscienza delle masse e non determinano spinte razionali, movimenti organizzati se non attraverso la mediazione di una forza politica e ideale capace di offrire, di rendere chiara e plausibile, una alternativa, un altro modo di vivere, di lavorare, di organizzarsi in società. Senza questa mediazione, quelle contraddizioni, proprio perché non nascono da bisogni elementari e univoci ma da esigenze umane più complesse, restano latenti e servono anzi a inchiodare l’individuo, isolato e alienato, all’ordinamento sociale, a farne un pilastro della sua sopravvivenza.
D’altro lato, poiché quelle contraddizioni ineriscono ormai alla natura del sistema, alla riduzione del lavoro a merce, alla supremazia della produzione sul consumo, alla struttura gerarchica e impersonale del potere non possono trovare soluzione, e dunque comporsi in una alternativa possibile, se non in una prospettiva di superamento esplicito e radicale del sistema dello sfruttamento. Non solo dunque lo sbocco politico generale e finale ma ciascuna lotta, ciascuna riforma è destinata a trovare slancio e spazio solo nella misura in cui si colloca in un discorso anticapitalistico. Non vediamo qui maturare un altro elemento di crisi dei contenuti tradizionali della politica frontista?
Infine, attraverso l’attuale sviluppo capitalistico, si è venuta accentuando la rigidità e la compattezza del sistema a livello nazionale e internazionale. Nella sempre maggiore estensione dell’area dell’intervento statale nell’economia, e nella generalizzazione dei metodi programmatori nelle scelte di investimento, molti hanno visto anche una maggiore possibilità di intervento pubblico, secondo una gerarchia di fini democraticamente stabiliti, per orientare le grandi linee di sviluppo. Ma in realtà, negli ultimi anni, in Italia e in Europa, l’esperienza ha mostrato invece come il sistema reagisca in modo sempre più aggressivo e automatico ad ogni intervento che ne alteri la dinamica, e come le scelte fondamentali da cui tale dinamica è governata esulino sempre più dalla sfera del potere politico e dalle possibilità di decisione degli Stati nazionali. Una programmazione della economia che si proponga di orientare realmente lo sviluppo non può più non avere, a questo punto, carattere globale, non essere di lungo periodo, non muoversi secondo scelte rigorose, non disporre di un potere politico e sociale e di un quadro istituzionale che le consentano di controllare la tremenda catena di reazioni che è destinata a provocare. Come è possibile, allora, puntare ancora su di un blocco di forze unite intorno ad un programma minimo e immediato; su di un movimento di massa che sollecita gli interessi esclusi più che organizzarli e selezionarli; su di una soluzione di governo priva della coesione, della forza e delle idee necessarie per un programma generale di trasformazione della società?
L’attuale logoramento dell’unità del movimento operaio è dunque, a mio avviso, legata a processi profondi dello sviluppo sociale che mettono in crisi le vecchie piattaforme e impongono un’unità di tipo nuovo sia per le forze che vi sono coinvolte che per le piattaforme su cui si fonda.
Questa è la direzione di ricerca che il nostro partito ha scelto, del resto, ormai da anni. Sia nel discorso strategico generale, sia nella definizione degli obiettivi concreti di lotta, gli ultimi nostri congressi sono stati dominati dalla consapevolezza che l’Italia era entrata in una nuova fase del suo sviluppo, e caratterizzati dallo sforzo fecondo di adeguare a tali novità l’azione rivoluzionaria. Cambiare rotta, oscurare questa ricerca, ricondurla negli schemi del passato, non solo ci farebbe mancare gli obiettivi più ambiziosi, le ricche potenzialità presenti nell’attuale fase storica complessa e instabile, ma ci renderebbe impotenti di fronte ad un logoramento dell’unità tradizionale, ci esporrebbe ad un grave pericolo di opportunismo e di integrazione.
In conclusione, l’unità di tipo frontista non appare più in grado di inserirsi nelle reali contraddizioni del sistema, di costruire un movimento capace di minacciarne i fondamentali equilibri; né d’altra parte ci si può attendere una crisi spontanea della società nella quale uno schieramento unitario costruito su obiettivi limitati e piattaforme eclettiche possa radicalizzarsi e assimilare nella fase acuta dello scontro una nuova prospettiva.
Certo non è il caso di fare una questione di parole. Se vogliamo dire che in questa nuova ricerca continua e si sviluppa una linea generale che nel VII Congresso dell’Internazionale ebbe la sua origine, che dall’esperienza antifascista trae la propria fondamentale ispirazione, diciamolo pure. La Chiesa cattolica, ad esempio, ha insegnato per secoli come si possano compiere le svolte più importanti, le innovazioni più profonde in termini di “interpretazioni autentiche”. Ma è utile questo metodo per un partito politico? Non occorre al contrario sottolineare sempre il momento della novità e dello sviluppo, la ricostruzione critica e scientifica del passato? Non si rischia altrimenti di mortificare una ricerca teorica e una invenzione pratica su cui occorre invece impegnare creativamente grandi masse? Non è sempre grave il pericolo di giungere a soluzioni anonime e formali che mettono al riparo da ogni unilateralità ma paralizzano il movimento?
di Lucio Magri