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La qualità nuova della crisi.

Alcuni mesi or sono ospitammo, su questo giornale, un dibattito che coinvolse un notevole arco di forze politiche e intellettuali, e ottenne un certo ascolto. Partendo dall’analisi della crisi economica cercammo di valutare quali spinte reali, nella società italiana, sollecitassero una politica riformatrice, e quali possibilità essa avesse di raggiungere l’obiettivo di un “nuovo modello si sviluppo”.
La tesi che proponemmo, allora, era quella secondo cui una spinta riformistica esisteva, nell’insieme del corpo sociale e all’interno stesso della classe dirigente e dello schieramento politico al potere; ma si sarebbe scontrata con difficoltà pressoché insormontabili, legate non solo al concreto equilibrio delle forze, ma a meccanismi profondi del sistema economico e istituzionale. In questo bisogno e in questa impossibilità di un disegno riformistico organico vedevamo il pericoloso terreno di coltura di tentazioni autoritarie, ma anche un nodo di contraddizioni favorevoli allo sviluppo di una linea e di un movimento alternativi.
Tale tesi incontrò varie obiezioni, sia da parte di chi continuava a concedere un certo credito alle possibilità di ripresa del modello economico tradizionale, dualistico, con una ristrutturazione che non ne alterasse i connotati essenziali; sia da parte di chi non accettava una previsione tanto pessimistica sulle sorti del progetto riformista.
Bastarono però la ricostituzione del governo di centro-sinistra e la ripresa congiunturale della produzione, benché “drogata” dall’inflazione, per incrinare quei convincimenti che sembravano solidi. Il discorso sulla crisi restò a mezz’aria. I politici della sinistra si riconvinsero a vicenda che comunque “due tempi” erano sempre possibili, e che per il momento bastava una “prima inversione di tendenza”. Gli economisti più coraggiosi tornarono ad affollare il gabinetto dei ministri, non resistendo né al richiamo del potere né a quello, più sottile, delle tabelline sulla congiuntura.
Oggi la situazione sembra matura per riprendere il filo di una discussione.
La crisi riesplode con caratteri ancora più evidenti. L’impraticabilità del vecchio tipo di espansione, che inflazione e svalutazione hanno ancor più deformato, appare ovvia. Sulla necessità, nell’immediato e soprattutto nel lungo periodo, di trovare nuovi settori e fattori trainanti giurano ormai anche i giornali dei padroni, scoprendo per incanto (anzi, “per profitto”) un “vuoto di bisogni collettivi” che la miseria quotidiana di milioni di italiani non aveva avuto finora l’eloquenza di imporre all’attenzione.
Punto a capo allora? Si torna sull’argomento del “nuovo modello di sviluppo”, e si moltiplicano così le carte di una grande operazione riformatrice?
A nostro parere no, comunque non allo stesso modo. Questi mesi non sono passati inutilmente, e la crisi non si presenta affatto immodificata. Vale anzi la pena di soffermarsi – per poter formulare qualche previsione e mettere a punto la linea – proprio su queste novità. La prima delle quali, e di gran lunga la più importante, sta nel qualificarsi della crisi economica italiana ormai come aspetto di una crisi internazionale.

La crisi italiana come aspetto di quella internazionale

È da tempo, in verità, che questo intreccio veniva emergendo. Già nell’agosto del 1971 – al momento delle improvvise decisioni di Nixon sulla convertibilità del dollaro e sulle relazioni commerciali con l’estero – apparve chiaro che burrasche monetarie di siffatte dimensioni non potessero che essere l’aspetto superficiale di contrasti e difficoltà ben più corpose. Il permanere poi di quei fenomeni, malgrado la drastica svalutazione della moneta americana, e d’altra parte l’accentuarsi e il generalizzarsi dell’inflazione in tutti i paesi dell’occidente, hanno confermato le preoccupazioni; e tolto ogni credibilità all’attesa di una economia mondiale in ordinata espansione sotto lo stimolo della competizione pacifica e la protezione della coesistenza tra i grandi stati. Per un paese dalla economia fragile e in difficoltà come l’Italia, il fatto stesso dello acutizzarsi dei contrasti interimperialistici, della concorrenza commerciale e delle spinte inflazionistiche indotte dall’esterno, era già in sé estremamente pericoloso, e assottigliava ancora i margini di manovra per il rilancio e la riforma del meccanismo di sviluppo. Non a caso però vi fu anche chi vide in quegli stessi fenomeni un incentivo possibile, una condizione di miglior favore, per l’avvio di una politica riformatrice: perché ne derivava una minore rigidità dei vincoli monetari rispetto alle nostre scelte interne (fluttuazione della lira), e perché dalla ristrutturazione in corso a livello mondiale poteva uscire, pur tra mille tensioni, un nuovo e dinamico equilibrio (industrializzazione di nuove aree, nuova divisione del lavoro tra gli stati), nel cui contesto l’economia italiana, debitamente guidata, poteva aspirare ad un ruolo superiore. Erano ipotesi del tutto arrischiate – come noi cercammo di dire – ma non assurde.
Con la scarsità e il rincaro del petrolio (che è poi scarsità e rincaro di gran parte delle materie prime), e con la minaccia di recessione che ne deriva in tutta l’economia occidentale – non solo per le conseguenze dirette, ma per l’effetto di moltiplicatore negativo che tali fenomeni assumono in una economia tenuta da tempo “su di giri” da una crescente inflazione – la crisi capitalistica internazionale ha fatto un salto di qualità. Anche in questo, come nel caso delle tempeste monetarie e commerciali, non è tanto il fenomeno in sé, e nella sua immediatezza, che conta e che ci deve far riflettere: potranno anzi aversi allentamenti nella crisi energetica ed essere poste in atto, proprio grazie ad essa, più efficaci politiche antinflazioniste, ad esempio nuove politiche salariali. Conta invece ciò che sta dietro: la crisi strutturale di tutto un modello di sviluppo a livello ormai mondiale. Tenteremo di spiegarci meglio, per non essere, al solito, accusati di catastrofismo o di ideologismi.
Già nel suo aspetto immediato la crisi petrolifera si presenta come un nodo di contraddizioni non superficiali né passeggere: nuovo potere contrattuale assunto dai paesi produttori di materie prime in un quadro mondiale ormai caratterizzato dall’equilibrio pentapolare e dalla disgregazione dei vari campi; spinta ad avvalersene, che nasce in società non più governabili dalle borghesie di stato parassitarie, e dalle ambizioni sub imperialistiche di una parte di quelle stesse borghesie; competizione tra Stati uniti, Europa e Giappone, non sanata dalla svalutazione del dollaro, la quale agli americani aveva imposto un troppo rapido e ingiustificato ridimensionamento della loro funzione imperiale; necessità del capitalismo europeo di fronteggiare la crescente e cronica spinta inflazionistica e di rimuoverne possibilmente le cause profonde. Su tutto ciò si è già molto detto; anche il nostro giornale ha ospitato analisi convincenti. Ma traspare, probabilmente, nella crisi energetica, qualcosa di meno immediato ma di ancor più significativo.
Lo sviluppo costante e impetuoso dell’economia capitalistica (quello sviluppo su cui si è formato non solo il senso comune delle masse ma anche l’orizzonte scientifico degli economisti della nostra generazione) può essere letto in base a due processi integrati tra loro. E di entrambi questi processi la attuale crisi petrolifera comincia a far emergere il limite insuperabile.
Innanzitutto, all’interno dei maggiori paesi capitalistici, la crescita del reddito globale prodotto e consumato è stata sempre e ovunque il risultato di uno straordinario incremento di produttività in alcuni settori direttamente produttivi, tale da compensare largamente il fatto che, contemporaneamente, una parte crescente delle risorse umane e materiali restassero inutilizzate, lavorassero a basso regime, o venissero adibite a usi la cui utilità appariva sempre meno chiara.
Centro motore di tutto questo sviluppo diseguale, base di questa piramide rovesciata, era l’intimo rapporto tra scienza e profitto: applicazione sempre più intensiva della scienza laddove il profitto tirava, la tecnologia poteva rinnovarsi senza impedimenti, la parcellizzazione del lavoro faceva buona prova; e d’altra parte epurazione dall’orizzonte della scienza, e in primo luogo da quella economica e sociale, di ogni criterio di valutazione dei costi, e di ogni finalità che non fossero immediatamente funzionali al profitto. Così, a monte e a valle di quella zona trainante del sistema, non solo il rigore dell’”economicità” veniva stemperandosi, ma si instaurava il regno dell’irrazionalità e dello spreco, sia per effetto diretto del “particolare modo di funzionamento” dei settori decisivi, sia per l’impossibilità di integrare in un meccanismo capitalistico dimensioni e settori della società ad esso non omogenei. In particolare, “a valle” del processo produttivo abbiamo visto crescere i fenomeni di disgregazione sociale, gli strati parassitari, i consumi di spreco, il deterioramento ambientale e umano; mentre “a monte” si è avuto lo sfruttamento intensivo e dilapidatorio delle risorse che la natura, patrimonio dato e accumulazione dei millenni, offriva abbondanti e a basso costo non appena l’uomo si fosse posto in grado di “consumarlo”.
L’esaurirsi, graduale ma sicuro, delle materie prime e delle fonti energetiche, così come, più in generale, il disastro ecologico non sono che la conseguenza diretta di questo modello di sviluppo, e l’ostacolo che esso incontra nel momento in cui, per la prima volta, “costi” che c’erano sempre stati assumono una incidenza direttamente valutabile per il capitale. Si tratta di una frontiera per ora elastica, modificabile con mille furberie e scaramucce, ma oltre la quale si indovina ormai il limite invalicabile, o almeno l’irrazionalità ormai insopportabile, fondata sullo sfruttamento materiale della natura come unico alimento della civiltà, anzi come succedaneo e copertura di una disgregazione crescente della vita sociale e collettiva. Lo stesso del resto potrebbe dimostrarsi, se pure in modo meno semplice e diretto, anche per il fenomeno dell’inflazione cronica: che cosa gli sta al fondo, infatti, se non la crescita dei settori parassitari dell’economia, e il parallelo modificarsi dei rapporti “spontanei” di forza tra capitale e lavoro in quelli direttamente produttivi?
L’altro grande fattore di espansione delle forze produttive nel capitalismo maturo è stato offerto – nessuno ne dubita – dall’integrazione di nuove aree e regioni del mondo: in particolare, negli ultimi trenta anni, l’Europa occidentale ed il Giappone. Tale conquista di nuove frontiere – che ha avuto un grande valore economico e un grande valore di stabilizzazione politico-sociale – appare, negli ultimi anni, in via di esaurimento. E a ciò certamente va ricondotta buona parte delle difficoltà e delle tensioni insorte nel sistema: lo spazio di cui dispone è nuovamente troppo ristretto per il dinamismo del capitale internazionale, e si riaccende la contesa tra i suoi vari settori per accaparrarsene una quota crescente. Restava però finora plausibile l’ipotesi che, a condizione di rimuovere certi ostacoli politici e sociali, l’”operazione Europa” potesse ripetersi, forse a scala ancor maggiore, nei confronti almeno dell’est europeo e di una parte dei paesi in via di sviluppo (Brasile, ecc.). la crisi energetica viene però a incrinare questa ipotesi di ottimistica proiezione quantitativa del passato nel futuro, tipica della cultura borghese. Essa conferma infatti con l’eloquenza della pratica una cosa che già da tempo si sapeva: cioè che il modo di produrre o di consumare del capitalismo maturo non può, anche per “ragioni fisiche”, essere esteso, almeno nella sua forma attuale e in quella del medio periodo immaginabile, a nuove rilevanti zone del mondo. Certo non sono solo queste ragioni fisiche ad ostacolare l’estensione dell’area del capitalismo avanzato: vi si oppongono parimenti la specificità economica, sociale, istituzionale, dei nuovi partners potenziali (l’Unione Sovietica del 1973 non è la Francia del 1946, il Brasile di oggi non è l’Italia del Piano Marshall); così come il nuovo equilibrio mondiale fra le grandi potenze, o molte altre cose ancora. E tuttavia questa difficoltà, fisica, non solo si aggiunge ora alle altre, ma toglie alla prospettiva dello “sviluppo” e dell’opulenza quel carattere semplice, e quel ritmo incalzante, in funzione dei quali non pochi degli impedimenti politici o sociale potevano essere più facilmente rimossi.

Limite naturale o contraddizione sociale?

Si badi bene: non vogliamo affatto dire che alla contraddizione sociale insorgente nel modo capitalistico di produzione, radice del suo disfacimento, se ne vada sostituendo un’altra di tipo “naturale”. Vogliamo dire esattamente il contrario: che cioè tale contraddizione sociale, nella costante ricerca di soluzioni che le consentano di perpetuarsi (e che insieme l’esprimono a sempre nuovi livelli), ha messo in moto un processo di distruzione delle stesse condizioni di esistenza e di convivenza della specie e dell’ambiente naturale in cui essa si colloca. Per dirla più concretamente: per quarant’anni il capitalismo occidentale ha trovato in alcuni meccanismi (lo sfruttamento, in forme diverse ma crescenti, di altre aree mondiali, la dissipazione del patrimonio naturale, la disgregazione del tessuto sociale precedente) lo strumento per allargare la base di consenso al suo interno, per mediare le lotte operaie, per costruire un blocco di potere con nuovi strati intermedi; oggi quei meccanismi manifestano appieno le loro conseguenze e il loro limite anche dal punto di vista dell’allargamento del capitale. E il sistema ne verrà probabilmente costretto sia a “forzare” quei limiti in modo violento (ripresa dei contrasti interstatali) sia a riproporre al sua interno una logica più “dura” nei confronti delle masse, un tipo di espansione più diseguale, selettiva, un tipo di potere più repressivo.
Per entrambi i versi dunque (come causa e come effetto) il limite “naturale” rimanda direttamente a quello “sociale” e ne esprime però in modo nuovo più ricco e universale tutta la valenza.
Si pone così, per pressione delle cose e non per accademia o passione ideologica, un interrogativo che ora non possiamo affrontare ma che ormai dovrebbe essere preso di petto: ciò a cui stiamo per molti segni approssimandoci, è una delle diverse crisi storiche al di là delle quali il modo di produzione capitalistico è rinato dalle proprie ceneri con volto nuovo e inattesa vitalità, oppure segna il limite estremo oltre il quale uno sviluppo capitalistico è impossibile, nel senso che si identifica immediatamente e senza residui in regresso e in catastrofe? In altri termini, si tratta di introdurre nel sistema una capacità di programmazione della ricerca scientifica, di stimolare certi settori del consumo così da creare nuove convenienze, di imporre certi vincoli alle scelte di investimento, per ottenere un “nuovo modello di civilizzazione”, ma sempre alimentato dalla produzione di merci e dal calcolo del profitto; oppure quello che oggi entra in crisi è il solo “modello di civilizzazione” di cui il capitalismo è capace, il solo tipo di sviluppo delle forze produttive che il profitto può produrre, e dunque la sua sostituzione implica, pena la paralisi, un nuovo, radicalmente diverso principio di organizzazione dei rapporti tra gli uomini?
Sono interrogativi cui è ben difficile rispondere in modo rigoroso perché la risposta implica un ripensamento critico profondo di tutta l’esperienza storica del capitalismo e di ciò che finora si è chiamato socialismo. Un ripensamento per il quale i testi di Marx (e tanto meno quello dei suoi credi), non offrono strumenti già perfezionati, ma solo stimoli e suggerimenti. Si tratta, per dirla in una sola parola, di cogliere fino in fondo, criticamente, nella sua unità, e non solo nella opposizione, il rapporto tra forze produttive e rapporti capitalistici di produzione, di vedere come e in che misura la configurazione materiale di tutto ciò che forma la nostra vita porti il seno del sistema sociale nel cui contesto è nato, e di come, rispettivamente, non sia possibile uscire da un certo sistema di rapporti sociali, di organizzazione della produzione, senza criticare e rivoluzionare tutto il contesto di cui esso rappresenta insieme il produttore e il prodotto. È il rapporto tra capitalismo e civiltà industriale che esige ormai analisi meno approssimative, fuori dal romanticismo economico come dalle ingenuità produttivistiche.
È però comunque sorprendente il cinismo con cui oggi questi interrogativi vengono accantonati e repressi; la frivolezza con la quale gazzettieri borghesi e deputati comunisti sono pronti a inforcare la autocritica di quel “tipo di civilizzazione” di cui sono stati per anni i sacerdoti fanatici, o i rassegnati sostenitori, ma conservando immodificata, tranquilla fiducia nell’evoluzione delle cose. Ciò che ieri era tanto “oggettivo” da non sembrar rimovibile neppure con una dura rivoluzione viene oggi descritto come modificabile senza neppur che si cambi il partito al governo o la forma delle istituzioni.
Noi non siamo pronti a così facili sicurezze. Da tempo siamo persuasi, e ripetiamo, che il capitalismo è entrato in una fase storica nuova, in cui il suo sviluppo impazzito assume sempre più nettamente un carattere regressivo, e dunque in cui si ripropone, in tempi storici, ma con netta evidenza, l’alternativa tra rivoluzione e catastrofe. E tuttavia non ce la sentiremo di dire, su due piedi, che il precipitare di quella alternativa già si identifica con la crisi specifica che oggi scuote il capitalismo internazionale, che dunque questa crisi è destinata ad avere andamento rapido e lineare. Molti elementi oggi sopravvengono a sostegno di questa ipotesi, ma non ancora conclusivi.
Una cosa però appare ormai, a nostro avviso, del tutto sicura. Ciò di fronte a cui ci troviamo, non è un semplice periodo di ristrutturazione, e, grazie ad essa, di rilancio del sistema (un periodo simile a quello degli anni ’50). Ma una crisi di tutto un equilibrio economico, sociale, culturale, al di là della quale lo sviluppo capitalistico potrebbe sul serio riprendere – sempre che possa riprendere – solo dopo uno sconvolgimento profondo, lungo e doloroso. Non dimentichiamo, del resto, che tra il capitalismo dei tempi di Lenin e quello che oggi conosciamo non sono passate solo le invenzioni del signor Ford e di lord Keynes, ma due guerre mondiali, rivoluzioni, repressioni gigantesche, il violento crollo di grandi imperi e il violento emergere di nuovi popoli. È appunto probabilmente di queste dimensioni l’ordine dei problemi che si profila, sia pure con tempi e forme che restano da definire. Non crediamo probabile che questa crisi assuma immediatamente il carattere di una recessione generale e verticale, del tipo del 1929; ma invece è pressoché sicuro che ci troveremo ad operare per anni in un mondo capitalistico dominato da crescenti difficoltà nell’espandere la sua stessa base produttiva e da crescenti tensioni fra stati e fra gruppi sociali, in un quadro di stagnazione. Processi di ristrutturazione verranno avanti fondamentalmente come mezzo per fronteggiare la crisi e riversarne su altri il prezzo; ma non sarà facile, al contrario, utilizzare la crisi per operare ristrutturazioni complessive ed efficaci. Ecco il dato, la previsione ragionevole che emerge dai recenti sviluppi internazionali e con cui anche la società italiana sarà costretta a fare i conti.
Ciò sposta totalmente di piano il discorso sulla crisi italiana e sulle politiche necessarie a fronteggiarle. La sola formulazione dignitosamente rigorosa del “nuovo modello di sviluppo” su cui aveva proceduto il disegno della “nuova maggioranza” aveva come elemento essenziale il fatto di potersi inserire in una economia internazionale in costante e sicura espansione; anche se tale inserimento, a differenza del passato, doveva essere padroneggiato e non passivamente subito. Proprio la domanda crescente del mercato internazionale e la conquista di un nuovo e più qualificante ruolo al suo interno, doveva infatti consentire la rapida estensione della base industriale italiana (industrializzazione del sud, livelli di occupazione “produttività” assai superiori) senza un drastico contenimento del consumo interno, né una pianificazione economica rigida e imperativa (cioè imposta da scelte centralizzate, prive di diretto riferimento al mercato e al consumo). In tale quadro anche la prevista spesa, e le auspicate riforme, nel settore dei consumi sociali, potevano non solo trovare fonti di finanziamento, ma, consentendo una diminuzione del costo di certi beni-salario e una maggiore pace sociale, anche rendere più competitivi i settori di punta e alimentare così il processo di sviluppo. (Non fu questa, del resto, l’operazione che riuscì brillantemente alle socialdemocrazie nordiche?).

La nuova ipotesi riformista

Nel momento invece in cui l’economia italiana debba mettere in conto un lungo periodo di recessione, o almeno di relativa stagnazione, a livello mondiale, il problema del “nuovo modello di sviluppo” cambia profondamente. Consumi collettivi e agricoltura, cioè gli attuali settori arretrati, dovrebbero diventare, attraverso opportuni interventi dello stato, gli autentici fattori trainanti della crescita produttiva, garantire l’occupazione, e così finanziare anche se stessi.
Non case o trasporti o scuole per consentire alla Fiat di produrre più automobili con più tranquillità e minori costi; ma case o trasporti o scuole nel ruolo propulsivo che automobili, autostrade o petrolchimica hanno avuto nel ventennio passato.
Parrebbe così offrirsi un terreno finalmente solido per la convergenza tra classe operaia e settori dinamici del capitalismo, una base programmatica sulla quale, sia pure con reciproci sacrifici e lotte non facili, potrebbe costruirsi un nuovo compromesso storico, più equanime che non quello del ’45, e dunque con un ruolo di piena e attiva corresponsabilità delle forze di sinistra. Ma non è un caso, a nostro avviso, che a tale concordia di propositi corrispondano così pochi atti concreti, e la politica riformatrice appaia sempre più sfumata nei contenuti e nei tempi. Perché alla convergenza delle parole corrisponde una crescente separazione dalla realtà. Il “piccolo particolare” che questo “modello” trascura è che l’espansione dei consumi sociali (o dell’agricoltura) – quali che siano le politiche economiche poste in atto – non può funzionare come effettivo settore trainante dello sviluppo economico.
L’onere della prova, a dire il vero, dovrebbe cadere soprattutto sui riformisti.
Ma i nostri riformisti non vanno tanto per il sottile, a loro basta che un’idea, approssimativa, sia credibile all’ingrosso, come strumento e copertura immediata di un’operazione politica, poi si vedrà. Tocca così, come spesso accade, a chi al riformismo non crede, analizzarne più a fondo la coerenza e la dinamica, per prevedere i processi reali che esso può innestare, e utilizzarli ad altro fine.
L’interrogativo se i consumi sociali possano agire come settore trainante dello sviluppo capitalistico può essere affrontato a vari livelli. Un primo livello, riguarda gli ostacoli che ad una politica di espansione dei consumi sociali oppongono gli interessi parassitari presenti e dominanti in tali settori (rendita urbana ed edilizia, intermediazione commerciale, ordini e baronie professionali, ecc.); l’intreccio, economico e politico, fra tali interessi e il capitale monopolistico; infine la totale incapacità ad operare in tale direzione di un sistema politico-istituzionale fondato sulle mediazioni interclassiste, sull’equilibrio delle corporazioni, sull’uso clientelare dell’apparato statale. Su tutto ciò si è finora insistito, e a buon diritto, perché queste erano appunto le ragioni concrete dell’arretratezza e dell’irrazionalità del consumo sociale in un paese come l’Italia, particolarmente in una fase di espansione economica fondata sull’alleanza tra gruppi monopolistici e medio ceto parassitario. Già da tempo però tale espansione è in crisi, si aprono lacerazioni nel blocco dominante, ed è legittimo quindi chiedersi se la forza stessa della crisi non possa far passare ciò che in fase di sviluppo si è rivelato impossibile.
Un secondo livello si impone dunque all’analisi: quello delle ragioni che hanno impedito di affrontare il problema dei consumi sociali, e di farne un elemento propulsivo del sistema, anche a paesi in cui gli interessi parassitari erano assai meno potenti ed antichi, in cui lo stato aveva una ben maggiore efficienza e unità, e i quali peraltro avrebbero in tal modo evitato grossi guai politici e sociali. Pensiamo, ad esempio, al caso degli Stati uniti, e al ricorrente fallimento del loro progetto di “grande società”. A questo fenomeno economisti e sociologi hanno offerto spiegazioni molteplici e convincenti: l’ostacolo frapposto al consumo collettivo, per sua natura tendenzialmente egualitario, da una distribuzione del reddito organicamente diseguale perché la diseguaglianza è la molla di tutto il meccanismo sociale dato; il ruolo sempre relativamente marginale che esercitano nella produzione e distribuzione dei beni collettivi il profitto privato e il mercato, che del sistema restano l’architrave; le scarse occasioni di innovazione tecnologica e la quasi totale assenza di un mercato internazionale nel settore dei consumi collettivi, almeno nella loro forma fisica attuale. Tutti fattori decisivi: almeno rispetto al capitalismo che storicamente conosciamo. Ed è legittimo dedurne che finché l’Italia si trova ad operare in un contesto economico internazionale che tira in direzione opposta a quella dei consumi collettivi, pensare di fondare su di essi il meccanismo di espansione interna, è pura fantasia.
Ma, resta da chiedersi, non sarebbe possibile, ora che la crisi si generalizza, ricercare in questa direzione una risposta complessiva per tutto il mondo capitalistico e fare dell’Italia il terreno di prova di una “riforma” destinata a generalizzarsi?
E allora si pone il terzo, e il decisivo, livello di analisi: quello che concerne le ragioni per le quali non è stato possibile un modello costruito sui bisogni collettivi neppure a paesi che pure avevano proceduto assai lontano sulla strada del livellamento del reddito o della formazione di una coscienza pubblica solidaristica (come la Svezia), o addirittura a paesi che disponevano di un potere pianificatorio quasi assoluto (come l’Urss). Nessuno può affermare infatti che esista diretta parentela, nella società svedese, tra l’apparato industriale avanzatissimo, che produce fondamentalmente beni di investimento per il mercato mondiale, e la “produzione di beni di consumo collettivi”; e nessuno parimenti può negare che i risultati del piano sovietico siano assai più brillanti nel settore degli armamenti che non in quello dell’agricoltura e dei servizi sociali. Nell’un caso e nell’altro, questi settori “tirano” l’insieme, ma lo “tirano verso il basso”. Da dove nascono difficoltà tanto profonde? Si possono fare alcune ipotesi.

Può il consumo collettivo essere settore trainante in un sistema capitalistico?

Settore trainante, in una economia capitalistica, non è l’equivalente di settore prioritario, quello cui la collettività attribuisce maggiore utilità e dedica maggiori risorse. Più specificatamente, è quella parte del sistema produttivo capace di esercitare effetti moltiplicativi sull’insieme: offrendo una domanda particolarmente dinamica e diffusa o stimoli particolarmente efficaci all’attività e al risparmio individuale; oppure, e soprattutto, offrendo direttamente occasioni favorevoli all’innovazione tecnologica e ala formazione di profitto, che poi si propagano a tutto il sistema.
Il primo caso è stato, nei decenni passati, quello dell’industria militare: mentre l’industria automobilistica ha funzionato su entrambi i piani. Consideriamo dunque da questi due punti di vista il settore dei consumi sociali (un discorso diverso anche se con conclusioni probabilmente analoghe si dovrebbe fare per l’agricoltura) e diamo pure per scontato ciò che scontato non è: che esistano la capacità politica e il sistema istituzionale in grado di creare e di organizzare in modo efficiente una domanda pubblica di servizi collettivi e di reperire il finanziamento necessario.
La prima osservazione da fare è che ben difficilmente la domanda globale di risorse (capitali e forza lavoro) assorbite dai consumi sociali può, in termini assoluti e nel lungo periodo, crescere a ritmo elevato. Se infatti osserviamo il modo in cui le attuali società capitalistiche già soddisfano i bisogni che potrebbero e dovrebbero dar luogo al consumo sociale (trasporto, abitazione, salute, istruzione), non è difficile accorgersi che, anche nei paesi più carenti, come l’Italia, non ci troviamo di fronte ad una insufficienza fisica di risorse impiegate, rispetto al livello complessivamente raggiunto dalla società, quanto ad un modo assurdamente irrazionale di impiegarle, sia dal punto di vista di ciò che si produce, sia da quello del come lo si distribuisce. L’esempio del trasporto, ovviamente, è il più eloquente: chi potrebbe negare che una organizzazione collettiva del trasporto garantirebbe migliore soddisfazione al bisogno di mobilità con un impiego di risorse assai minore di quelle assorbite dalla motorizzazione privata? In altri casi (scuola, sanità) il fatto è meno evidente: perché esiste una effettiva carenza materiale. Ma anche qui l’aspetto di gran lunga prevalente è il bassissimo livello di produttività di questi servizi, derivante dalla loro gestione privatistica, dalla presenza di meccanismi parassitari, e in generale dal fatto di averli unicamente concepiti come serbatoi di spesa pubblica e aree di parcheggio di semioccupati. Nello stesso settore delle abitazioni, basta pensare alla spesa prodotta dalla arretratezza e dalla polverizzazione della produzione edilizia, per vedere che un processo di razionalizzazione liberebbe forza lavoro occupata più velocemente di quanto la crescita di della produzione potrebbe occuparne su basi nuove. Nel momento insomma in cui si ponesse mano a una politica riformatrice e razionalizzatrice nel settore dei bisogni collettivi non è affatto da attendersi un automatico effetto moltiplicatore dalla parte della domanda.
Si può obiettare che nulla impedisce di accrescere in definitivamente questa domanda dato che non esistono limiti fisici ai bisogni collettivi e che anzi, in questo settore, ciò che conta è il potere pubblico e dunque una scelta consapevole. Ma ciò è vero solo in apparenza. Sia il livello che la qualità dei bisogni sono, in una certa società o in una certa epoca, storicamente ben determinati, tanto da essere una delle principali condizioni della produzione. Questa determinazione è tanto più (e non meno) precisa quanto più il livello dei consumi si allontana da quello della pura sussistenza, quando (e quanto più) la produzione e l’organizzazione sociale diventano complessi e producono a loro volta la natura dei bisogni: come è, evidentemente, il caso del capitalismo moderno. A questo livello, considerare i bisogni (oltre che, evidentemente, la domanda effettiva) come qualcosa di orientabile autonomamente rispetto al modo in cui gli uomini si organizzano e producono, non ha senso; né si vede come la “volontà pubblica”, tanto più legata agli interessi dominanti e ai valori correnti, in ciò dovrebbe differenziarsi da quella individuale.
Già per questo solo fatto è sommamente improbabile che una società organizzata sui valori dell’individualismo e della competizione riesca ad imporsi una gerarchia di consumi fortemente squilibrata a favore di quelli sociali. Ma ammettiamo pure che, grazie alla pressione del movimento operaio organizzato, come soggetto di una nuova egemonia e portatore di nuovi valori, ciò sia possibile. La difficoltà più grave resta sempre irrisolta. Al capitalismo non serve un consumo qualsiasi, né tanto meno un consumo “utile”, serve un consumo di merci: ad esso occorre cioè la soddisfazione di un bisogno umano attraverso la mediazione di un bene o di un servizio prodotto, e presente sul mercato. Per questo, nel suo sviluppo, il capitalismo ha progressivamente ridotto l’insieme del tempo e l’insieme delle attività non propriamente lavorative di cui l’uomo dispone, a attività di puro consumo: prevalentemente distruttrice di beni. Anche le forme più sofisticate di tempo libero e di consumo voluttuario hanno in effetti assunto questo carattere passivo e dilapidatorio.
Ciò che comunemente si definisce consumismo in realtà non è altro che questo: la separazione definitiva del consumo dalla produzione, che non è affatto sua autonomia, sua elevazione a libera espressione della personalità, ma al contrario la condizione della sua perfetta funzionalizzazione alla produzione e al profitto che la regola. Ma poiché questo meccanismo isterilisce il processo di formazione e di qualificazione dei bisogni, di quelli almeno per i quali qualcuno è realmente capace di lavorare e di battersi, il sistema ha dovuto elaborare mille meccanismi artificiali di stimolo a un consumo ormai fatto di modi diversi e inutilmente complessi di soddisfare lo stesso bisogno, o che non ha altri contenuti se non quelli del prestigio e del simbolo di status. Ora, quando si passa al settore dei consumi collettivi le cose cambiano profondamente, nel senso che subito affiora il limite, la contraddizione profonda del consumo nella sua forma capitalistica.
Innanzitutto i vari meccanismi della concorrenza individuale, stimoli dello spreco, perdono quasi ogni valore: ha un senso tesaurizzare pellicce o godere da soli quadri di grande valore, muoversi lentamente su automobili inutilmente grandi e veloci; non ne ha alcuno disporre di più ospedali di quanti ne servano ai malati gravi, o restare a scuola a lungo per imparare professioni che poi non si eserciteranno. Solo un potere grottesco e dispotico può imporre inutili spese collettive di prestigio. D’altra parte, quando in concreto si pensa ad un consumo collettivo non di spreco, né subalterno alla produzione, si vede subito (assai prima cioè che non nel campo del consumo privato) come esso tenda a ricomporre l’unità tra produzione e consumo, a lasciar spazio alla libera e creativa attività, e solo marginalmente e secondariamente a esprimere una domanda di merci.
È vero che la scuola ha anche bisogno di aule e di materiali didattici: ma quando la si concepisca fuori dalle strettoie dell’istruzione professionale e dell’istituzione separata (strettoie che del resto già la scuola di massa al suo livello attuale ha fatto saltare) e la si concepisca cioè come strumento permanente e integrato dell’attività culturale collettiva, è evidente che essa, pur assorbendo una parte rapidamente crescente delle risorse sociali e dell’attività umana, solo marginalmente offre uno stimolo ai settori tradizionalmente produttivi. Ancora: la salute, e in generale il perfezionamento biologico e psichico della specie umana, offrono un campo sterminato di espansione dei bisogni e di assorbimento delle risorse: ma non appena si affrontino questi problemi per ciò che esso già oggi sono (prevenzione delle malattie, lotta alle loro cause sociali, ricerca medica e biologica, igiene mentale, ecc.) è evidente come solo una parte decrescente di tali risorse assuma la forma del consumo di merci prodotte (medicine, impianti, edifici) e che anzi nuovi vincoli ne possano invece derivare alla libera ricerca del profitto.
Insomma quella vera, rapida espansione del consumo collettivo che pure è ormai storicamente matura, non sarebbe destinata a presentarsi come una domanda massiccia e permanente dei beni prodotti dall’industria, quanto piuttosto come forma diretta di impiego, fuori dal circuito del mercato, di attività umane e materiali progressivamente rese disponibili da un settore direttamente produttivo sempre più efficiente ma sempre più ristretto. Non settori “trainanti” dunque lo sviluppo capitalistico ma alternativi rispetto alla sua logica.

L’inefficienza cronica del settore pubblico nell’attuale sistema

Consideriamo ora l’altro modo in cui un settore può essere trainante: come luogo di accelerate innovazioni tecniche e di alti saggi di accumulazione. Il discorso può essere qui ancora più semplice, la conclusione più evidente.
In primo luogo, quale che sia la volontà del potere pubblico di far posto, e anzi di stimolare la presenza diretta del capitale privato nei settori del consumo sociale, è evidente che quest’ultimo può svolgervi solo un ruolo non primario: perché può costruire trasporti pubblici, o ospedali o scuole, ma difficilmente gestirli; e perché si tratta comunque di beni non deperibili, rispetto ai quali, dunque, l’innovazione tecnologica sostitutiva del bene si introduce più lentamente e più lentamente si diffonde. Espansione dei consumi collettivi non può produrre quindi anche estensione di forme pubbliche di produzione e di gestione dei servizi.
Ciò di per sé vorrebbe dir poco: perché non ipotizzare infatti una forte dose di innovazioni o un alto tasso di produttività e di accumulazione proprio nel settore pienamente pubblico? Solo che qui affiorano tutti i nodi irrisolti del funzionamento razionale ed efficiente dell’apparato produttivo di proprietà e gestione statale. Che non sono solo nodi pratici, per via pratica affrontabili e solubili. C’è da chiedersi: perché là dove il meccanismo privatistico della produzione (salario legato al mercato del lavoro, libertà di licenziamento, liquidazione degli impianti improduttivi, ecc.) lascia il posto a meccanismi pubblici, allora alle vecchie e conosciute irrazionalità dell’anarchia capitalistica si sostituiscono altre non certo meno gravi forme di spreco e di immobilismo (la burocrazia, il clientelismo, l’inefficienza, ecc.)? Perché dunque nelle economie occidentali gestione pubblica è diventato sinonimo di arretratezza (e certe imprese pubbliche si sottraggono alla regola agendo con criteri privatistici)? E perché nelle economie “socialiste” solo il maggior tasso complessivo di accumulazione, la maggiore razionalità delle scelte complessive di sviluppo, gli investimenti giganteschi e programmati, compensano – e sempre più a fatica – la grave inefficienza delle imprese e dei singoli complessi?
La sola spiegazione plausibile sta nel fatto che non può modificarsi con successo la gestione economica da privata in pubblica, senza modificare nel profondo la realtà dei rapporti di produzione e sociali, non si può smantellare un certo meccanismo che tiene legati gli uomini tra loro e li costringe al lavoro, senza sostituirlo con altri legami e con motivazioni più liberamente accettate ma altrettanto valide. Questa pare del resto la verità profonda del “modello cinese”, il segreto “semplice” anche del suo buon funzionamento produttivo. Pensare, in una società che permane capitalistica nella sua struttura e nei suoi valori portanti, di mettere in piedi un settore pubblico (realmente e non solo come forma proprietaria esteriore) dell’economia, più efficiente e dinamico, a più alta produttività che non quello privato, a noi pare perciò fuori dal mondo. Su questo “piccolo inconveniente” da circa quarant’anni perdono la testa non solo metaforicamente, i dirigenti dell’agricoltura sovietica, cioè di quel settore dove, apparentemente nelle condizioni più favorevoli, in realtà in un contesto di rapporti sociali la cui sostanza capitalistica non è superata, l’impresa pubblica cerca inutilmente di venire a capo delle miserabili ma coriacee e vitalissime economie individuali.
Tutto ciò, si badi, non vuol dire affatto che puntare sui consumi collettivi non rappresenterebbe per un paese come il nostro, e sia pure in un contesto ancora capitalistico una cosa buona, un passo in avanti importante, un impiego più razionale delle risorse, un elemento di giustizia sociale. (Sosterremo anzi più avanti il contrario).
Vuol dire solo che non può essere questo il nuovo fattore trainante dell’economia capitalistica, né italiana, né mondiale.
Non a caso del resto in tre soli esempi quel consumo ha avuto un effetto direttamente ed esplicitamente stimolante sul meccanismo capitalistico: quello della spesa militare, nella forma di commesse all’industria privata e come strumento di penetrazione imperialistica; quello dei sussidi di disoccupazione e di pensionamento, quando hanno garantito piena mobilità del lavoro e di manovra sui livelli di occupazione; e quello del sostegno alla spesa edilizia, soprattutto però come strumento di ristrutturazione del tessuto urbano e di rilancio della motorizzazione privata (le new towns): sempre cioè in termini non di espansione del consumo sociale in quanto settore trainante dell’economia, ma di “uso” della stessa spesa sociale come base di appoggio tradizionale al profitto privato ed al consumo individuale. E non a caso, ancora, oggi, in Italia, non potendo seriamente proporsi né una politica di riarmo, né un ulteriore abbassamento del livello di popolazione attiva, la sola direzione di “consumo sociale” che il capitale riesce a vedere con una certa serietà e concretezza è quella della “trasformazione dell’ambiente urbano”: cioè il sostegno pubblico alla domanda di case da parte di una nuova fascia di acquirenti, e la proliferazione di città satellite, base oggettiva di una “nuova soglia” della motorizzazione.

I probabili effetti della crisi economica sugli schieramenti politici

Appare a noi dunque fondata – e fondata su dati strutturali e profondi e non solo sugli attuali rapporti di forza sociali e politici – la persuasione secondo cui il capitalismo italiano non può trovare oggi soluzione alle proprie difficoltà di sviluppo, tentare una riconversione produttiva, nella sola direzione in cui pare costretto a ricercarla finché non si aprano nuove prospettive internazionali: quella appunto del consumo sociale.
Di qui derivano, ci pare, due ordini di conseguenze. Innanzitutto – poiché ancora più logorate del passato appaiono le speranze di un semplice rilancio del vecchio tipo di espansione, e del tutto fumose o immature diverse prospettive di sviluppo indotte dai processi internazionali – è necessario prevedere una lunga fase non solo di instabilità economica e sociale ma di crescente difficoltà di espansione produttiva. Dopo un lungo periodo in cui gli opposti schieramenti politici e sociali hanno dovuto abituarsi a padroneggiare, o a utilizzare, contraddizioni insorgenti in un quadro di permanente sviluppo, si apre un periodo forse altrettanto lungo, in cui lo scontro di classe avverrà, particolarmente in Italia, in un quadro di crescente stagnazione. Questa inversione non sarà né improvvisa né univoca: i principali fattori di crisi che si presentano, a livello internazionale e nazionale, operano nel medio e lungo periodo; e la dimensione stessa assunta dal sistema capitalistico, il suo grado di compenetrazione, i suoi strumenti di controllo dell’economia, impediscono alla crisi di precipitare in modo improvviso e con una progressione lineare. Tanto più che non esistono né le condizioni oggettive né quelle soggettive perché il sistema trovi una rapida, facile e illusoria via di uscita in direzione della violenza interna ed esterna. La gravità stessa della crisi che lo scuote gli toglie infatti molti degli strumenti classici per coagulare uno schieramento reazionario capace di “soluzioni definitive”.
Per questo appaiono superficiali e strumentali le drammatizzazioni che spregiudicatamente, all’improvviso, paiono conquistare gran parte della stampa e delle forze politiche borghesi. Esse cercano nella stretta contingente provocata dalla vicenda del petrolio mediorientale il mezzo per conquistare il maggior spazio di manovra possibile per affrontare un futuro che indovinano assai difficile. La crisi è invece assai meno immediata, ma incomparabilmente più profonda di quanto i gruppi dominanti e la sinistra tradizionale oggi non dicano, e probabilmente non pensino. Siamo effettivamente a un punto di svolta: ma al punto di svolta tra una crisi strisciante di sistema operante nello sviluppo, e una crisi di sistema che solo ora comincia vistosamente ad incidere sullo sviluppo. Non mancheranno in questa crisi colpi di coda, momenti di recupero, processi vistosi di ristrutturazione, ma in un quadro generale di stagnazione e di difficoltà crescenti.
Il secondo ordine di conseguenze che ci sembra possibile tirare dal ragionamento fatto, riguardano il modo in cui prevedibilmente si atteggeranno nella crisi, le varie forze sociali e politiche. Lo spazio reale del “compromesso storico”, ci sembra oggi assai ridotto. Certo, intorno ad una politica dei consumi sociali non solo si discuterà moltissimo, ma si faranno concreti e travagliati tentativi. Perché questa è la sola copertura di cui la borghesia nel suo insieme dispone, per imporre una politica di contenimento del salario e di riduzione del tenore di vita delle masse, mancandole ora la forza e la compattezza per imporla con uno scontro frontale e con strumenti puramente repressivi. Perché questa è attualmente la carta di cui dispone il capitale avanzato per contrattare tregua ed elasticità nell’uso del lavoro in fabbrica, e contemporaneamente per operare la razionalizzazione di certi settori arretrati e parassitari, comunque necessaria per il futuro. Perché questo è il terreno naturale su cui la sinistra riformista può tentare di costruire una convergenza tra classe operaia e capitale avanzato. Perché questo, infine, è anche un terreno obbligato di lotta per una classe operaia che deve difendere salario e occupazione in una fase in cui essi sono contemporaneamente minacciati e la lotta di fabbrica manifesta perciò i propri limiti.
Ma se la politica dei consumi sociali e della spesa pubblica non può far conto su uno sviluppo produttivo da essa in gran parte indipendente, né è in grado di alimentarne uno nuovo, diviene allora, anziché base di un compromesso sociale, occasione di nuovi scontri e di scelte drammatiche. Già il suo finanziamento, non copribile dinamicamente dallo sviluppo indotto, pone subito il problema: chi paga? Le masse popolari, attraverso l’inflazione galoppante; o gli strati medio – superiori attraverso l’imposizione fiscale? Espansione del consumo collettivo con sacrificio dei consumi privati: ma di quali consumi? La ridistribuzione delle risorse tra consumo collettivo e consumo privato comporta una parallela redistribuzione tra le classi di reddito: a vantaggio di chi?
D’altra parte, e conseguentemente: chi e quanto deve essere sacrificato sul terreno dell’occupazione? Si considera prioritaria la salvaguardia dell’occupazione nell’industria, e in particolare nell’industria ad alta produttività, e si rende funzionale la spesa sociale alla sua penetrazione in nuovi settori e alla liquidazione di parassitismi e di settori arretrati (edilizia, commercio, amministrazione pubblica); o si considera prioritaria la garanzia del livello globale di occupazione, se pure a bassa produttività, e a rischio di compromettere per sempre la competitività internazionale dei grandi complessi?
Su questi scottanti problemi non solo sono destinati a scontrarsi l’insieme della borghesia con l’insieme del proletariato, ma anche a svilupparsi laceranti contraddizioni all’interno dei vari schieramenti. L’insieme del padronato e il grande capitale non hanno certo, a questo punto, una convergenza di interessi sulla questione dell’inflazione, del deficit di bilancio, della tassazione: e anzi divergono sulla questione delle “riforme” e delle misure razionalizzatrici. A sinistra, lo sforzo dei partiti riformisti di trattare moderazione e collaborazione in fabbrica con certe contropartite di politica economica, cambia di segno, e si scontra con ben altre opposizioni, quando condizione di quel patto diventa la riduzione effettiva del livello del salario, il peggioramento delle condizioni di lavoro, la diminuzione dei livelli di occupazione. Le parole diventano più uguali, ma gli interessi più incompatibili.
Per tutto ciò è nostra convinzione che, fin quando e per quanto sarà possibile, della politica dei consumi sociali se ne parlerà molto ma se ne farà poco, il potere continuerà – anche al costo di sopportare scontri politici assai più aspri e ad accelerare la minaccia di recessione – a navigare tra inflazione e deflazione, a estendere la spesa pubblica in modo generico e casuale. Non a caso, dopo le prime settimane seguite alla crisi petrolifera, “squillanti” sul tema del “nuovo modello di sviluppo”, è subito subentrata una ben maggiore prudenza.
Le divisioni all’interno del governo, pur permanendo, si sono spostate sulla falsa, ma tradizionale alternativa tra deficit di bilancio e politica di austerità. Anche le forze di sinistra, o almeno settori importanti al loro interno, sono ripiegate sulla logora tematica delle misure di emergenza. Non si tratterà solo di una “fase di attesa”, ma di un periodo di pericoli ben gravi. Proprio dalla impotenza dell’apparato politico-istituzionale, da questa sua “impossibilità” di scegliere alcunché, tanto più grave quanto più grossi diventano i problemi da affrontare, possono nascere infatti mosse di tipo reazionario (intrecciati al referendum, a elezioni anticipate, a iniziative dei corpi statali) non in quanto espressione di schieramenti sociali consolidati o di programmi definiti, ma come colpi di coda specificamente legati al meccanismo politico. È difficile – a nostro avviso impossibile – che ciò possa rappresentare una soluzione vincente e definitiva, proprio perché le forze e i contrasti reali si sviluppano ad altro livello e con altri schieramenti: ma ne può venire un deterioramento grave di tutto l’equilibrio italiano.
Andiamo insomma, nell’immediato, probabilmente incontro ad una esperienza simile a quella del governo Colombo: un centro-sinistra che imputridisce, con una opposizione di sinistra paralizzata e un’opposizione di destra che assume l’iniziativa. Quando poi il blocco dominante sarà costretto – perché sarà costretto – a compiere delle scelte reali, a ricercare non solo a parole nuovi equilibri, una nuova alleanza, proprio intorno ai temi del consumo collettivo e della lotta al parassitismo, ciò aprirà lacerazioni ancor più gravi. La linea del compromesso storico, il tentativo riformista, proprio per la mancanza di alternative, dominerà dunque la scena italiana per non breve tempo, ma come una velleità, un tentativo contraddittorio su cui si addenseranno le minacce di uno scontro più radicale. Qualcosa di assai più simile alla repubblica di Weimar (pur in tempi non necessariamente brevi) che all’America del new deal. La responsabilità storica degli attuali partiti di sinistra è di infilarsi in questa prova alla cieca. Il problema è invece sempre più chiaramente quello su cui da tempo insistiamo: di utilizzare questa drammatica e strisciante crisi per costruire, anche sulle stesse contraddizioni dell’esperienza riformista, un’alternativa vincente.

di Lucio Magri, Manifesto/Settimana, 13 gennaio 1974