Vai al contenuto

Varsavia.

All’indomani del colpo di stato a Varsavia, abbiamo tutti sentito dire, dal segretario del maggiore partito comunista di occidente, che bisogna ormai considerare chiusa un’intera fase storica.
I partiti e gli stati direttamente usciti dalla rivoluzione di Ottobre, hanno ormai esaurito la capacità di rinnovare se stessi e il proprio ordinamento sociale, e il loro futuro politico dipende dalla capacità del movimento operaio occidentale di avviare, nel corso di una nuova crisi storica che scuote tutto il mondo e la rende possibile, una propria e originale esperienza rivoluzionaria.
A chi, come noi, dieci anni fa è stato radiato dal Partito comunista anche, e forse anzitutto, per avere sostenuto queste cose (entrambe queste cose: perché separando una dall’altra si cambia radicalmente il senso del discorso) è venuto spontaneo non già recriminare ma porsi un interrogativo. Quando si è chiusa quella fase o almeno quando è diventato politicamente maturo e fecondo prenderne atto: in Polonia nell’81, o a Praga nel ’68? E quali sarebbero state e conseguenze, sulla storia italiana ed europea, se questa scelta coraggiosa di “rifondazione” fosse stata compiuta nel pieno sviluppo delle lotte operaie e studentesche in occidente, della vittoriosa lotta vietnamita, della rivoluzione culturale cinese, quando cioè il movimento di massa quasi naturalmente si disponeva ad una “uscita a sinistra dallo stalinismo”, la crisi economica non esercitava ancora pienamente il suo ricatto, le classi dominanti non avevano ancora riorganizzato una controffensiva ideologica e sociale?
Soluzioni facile e lineari non le avremmo comunque trovate – e in questo, lo riconosco, noi più di altri ci siamo sbagliati – ma certo oggi ci troveremmo in condizioni assai più favorevoli per trovarle. Molti degli errori – di opportunismo nei partiti, di estremismo nel movimento – compiuti nell’ultimo decennio hanno qui infatti la loro vera radice: in una lettura riduttiva, e in una risposta volutamente parziale, di fronte al primo, e per certi versi decisivo, emergere di una fase storica nuova. A che serve un grande partito, una teoria, una grande esperienza collettiva, se non ad interpretare i processi storici anticipandone il decorso quanto basta per orientarli e modificarli? L’incancellabile grandezza di Lenin non sta tutta in questo, nell’aver colto il senso profondo della prima guerra mondiale, e averlo tradotto in una opzione strategica che sorprese non solo gran parte dei suoi contemporanei ma anche molti dei suoi compagni?
A porre questi interrogativi sul recente passato non ci spinge alcun desiderio di “aver avuto ragione”. Al contrario, aver visto o detto alcune cose poi dimostratesi vere senza aver potuto o saputo tradurle in iniziativa efficace, è forse peggio, in politica, di non averle viste affatto, o di non aver voluto dirle. L’esempio di Trotski, in proposito, dovrebbe aver vaccinato tutti abbastanza.
Ci spinge invece una preoccupazione ben diversa, e rivolta al presente. La preoccupazione cioè, che anche oggi la sinistra italiana, e anzitutto la sua forza principale, comunista, pur muovendosi con serietà e coraggio (come allora del resto: chi non ricorda l’intervista di Longo agli studenti, le prese di posizione sulla Cecoslovacchia, e prima ancora il memoriale di Yalta?) resti comunque “al di sotto” di ciò che, di fronte ai fatti polacchi, occorre capire, dire, e fare. Capire, dire e fare, anzitutto, rispetto alla società del “socialismo reale” e alle loro dinamiche.
Quando parliamo di quei paesi non riusciamo ancora ad andare oltre un discorso per categorie generali, più o meno adeguate. Anche chi evita ormai le semplificazioni rozzamente propagandistiche o strumentali – dell’inventiva e della giustificazione – tende comunque a ragionare ad un livello general-generico: natura del sistema rapporto democrazia- socialismo, ruolo imperiale dell’URSS, continuità e rottura tra leninismo e stalinismo, e così via. Sarebbe come se discutessimo dell’attuale crisi delle società occidentali solo in termini di “natura del capitalismo”, caratteri e limiti della democrazia rappresentativa, lotte dei lavoratori per affermare i loro diritto e reazione dei padroni per restaurare i meccanismi dello sfruttamento. Tutte cose importantissime, anche se continuamente meritano una verifica e una precisazione, ma del tutto insufficienti a definire una previsione e ad elaborare una politica di intervento, se poi non si arriva a calarle in una analisi storicamente determinata delle contraddizioni che insorgono, dei processi in atto, delle forze in campo. Per l’Occidente, ad esempio, ci sforziamo oggi giustamente, con maggiore o minore successo, di definire sul concreto la specificità della crisi attuale come crisi dello stato sociale, dei modelli di espansione quantitativi, del rapporto neo-coloniale nord-sud. Per le società dell’Est avviene invece il contrario: l’analisi è sempre più disertata, o comunque scissa dal giudizio politico.
Non è sempre stato così. Dopo il XX Congresso del Pcus si era venuta affermando – nella sinistra – una ipotesi che andava oltre, pur senza contraddirla, la condanna dello stalinismo: quella di una crescente contraddizione tra l’ossatura autoritario-centralistica ereditata dall’epoca staliniana e la realtà nuova, sociale e produttiva, che cresceva insieme con la nuova base industriale e più in generale con lo sviluppo di moderne forze produttive; contraddizione da cui doveva conflittualmente nascere un processo di graduale democratizzazione. È su questa ipotesi che reggeva tutta la politica di distensione. L’invasione dell’Ungheria è stata generalmente interpretata e vissuta come una battuta d’arresto, un tragico colpo di coda delle forze che resistevano a quella tendenza, la quale però non ne veniva sostanzialmente compromessa. E per qualche anno le cose sembrarono dare ragione a questo schema di ragionamento.
La crisi cecoslovacca del ’68 ha inferto un primo colpo mortale a queste speranze, non solo perché ha mostrato che quei “colpi di coda” si ripetevano, con sinistra efficacia, a decenni di distanza, ma perché ha mostrato una capacità del blocco dominante in quella società di riprodursi su basi nuove, una capacità dunque del sistema di garantire le proprie compatibilità, al prezzo certo di un rallentamento economico o di una spoliticizzazione di massa, ma anche con un notevole grado di stabilità interna e con altrettanto notevoli successi internazionali.
Le correnti riformiste della sinistra occidentale rimasero, a quel punto, prive di alcuna chiave di interpretazione, di alcuna ipotesi fondata rispetto al “socialismo reale”, sempre più visto come un “gulag” immobile e indecifrabile: la loro politica distensiva sopravvisse solo per forza di inerzia, logorandosi fino al momento del prevalere in occidente della linea reganiana, cui sanno resistere ma che non sanno contrastare con una alternativa.
Restava però in piedi, seppure minoritaria, una nuova ipotesi suggerita della rivoluzione culturale cinese, dalla lotta vietnamita, dalla prima fase dell’esperienza cubana: l’ipotesi di una trasformazione radicale e dall’interno di quel modello di società e di stato attraverso una forzatura estrema della mobilitazione sociale e ideologica, un tentativo di salto diretto dal sottosviluppo alla società comunista, sostenuto proprio dalla radicalità delle grandi masse espropriate del Terzo mondo e dalla impossibilità materiale, per loro, di ripercorrere la strada del “modello staliniano di sviluppo”. Ma anche questa speranza si è dimostrata fragile, o almeno assai parziale; per la sconfitta della rivoluzione culturale, il dramma del dopoguerra indocinese, e in particolare per la totale e non casuale incapacità di quelle esperienze, anche nella loro fase più alta, di esercitare qualsivoglia stimolo all’interno delle società dell’Est europeo. Il nesso tra primavera di Praga e rivoluzione culturale è rimasto tutto e solo nella nostra testa.
Così, quando nel 1980 è esplosa la straordinaria esperienza polacca quasi nessuno, nella sinistra europea e in occidente, si è sforzato sul serio di capire cosa di nuovo stava succedendo nelle società dell’Est, quali potevano esserne gli sviluppi, quali i limiti e le contraddizioni, e soprattutto di chiedersi che cosa si poteva e si doveva fare per sostenere in tempo quella nuova esperienza, per creare le condizioni politiche ed economiche generali perché essa tenesse e si sviluppasse. Diciamo pure la verità, senza temere con questo di offrire ai generali una giustificazione oggettiva: non era difficile vedere, giorno dopo giorno, accumularsi tutte le condizioni della crisi del 13 dicembre. Essa non è nata nel chiuso di un palazzo segreto o per opera del complotto organizzato da una cricca militare e politica minacciata nei suoi interessi e teleguidata da una potenza straniera. L’intervento dell’URSS c’è stato, pesante, ed ha contribuito al colpo militare così come il Dipartimento di Stato ha contribuito alla caduta di Allende. Ma è stato solo una componente di una vicenda assai più complessa e drammatica: la crisi del partito polacco, il precipitare della economia, l’ingovernabilità crescente del movimento di lotta, lo spostamento di forze prima dal campo del vecchio potere al campo riformatore, poi nel senso contrario. Jaruzelski è l’emblema di questo processo. E tuttavia siamo stati tutti prima sorpresi dalla forza del movimento, dai suoi successi, poi dalla sua sconfitta.
Anche ora, nel momento duro della sconfitta, tendiamo ad eludere i veri problemi: ci dividiamo tra chi comunque spera, come fa Brandt, che le cose si aggiustino col minor danno possibile, ma allora è portato alla prudente attesa, e chi già dà per liquidata la partita, vittorioso un “nuovo fascismo” di fronte al quale non ci sono più problemi di iniziativa politica ma solo di scontro frontale, e allora è pericolosamente trascinato dietro le bandiere di Reagan, al puro sfogo verbale.
Si può, si deve dire – meglio tardi che mai – che le future sorti del socialismo dipenderanno da ciò che noi in Occidente sapremo fare nell’indicare e sperimentare una via nuova. Perché è vero. Ma è anche un ragionamento che si morde la coda, se non appoggia su un’analisi di ciò che può accadere, e di ciò che si può contribuire a far accadere, in quella parte del mondo. Perché è del tutto vano sperare che si possa in Occidente affrontare il tema storico di una “terza via” se nell’Est europeo si afferma sempre più un potere repressivo e una politica avventuristica, e se gran parte delle forze progressiste del Terzo mondo, per il ricatto reale esercitato dal rapporto di forza con il loro diretto antagonista, restano legate alla politica del gruppo dirigente sovietico. In un quadro di quel genere la sorte di Brandt rischia di essere altrettanto patetica, anche se assai meno dolorosa, di quella di Walesa. Un’analisi concreta – fuori dai furori ideologici come dal “realismo” compiacente – delle dinamiche in atto nel socialismo reale resta dunque oggi essenziale, come lo era nell’anno passato.
Da cosa è nato il caso polacco, quali tendenze di fondo e generali vi erano alla base, cosa ha portato all’attuale sconfitta, e quali sono le dimensioni reali di questa sconfitta, il colpo di stato chiude una partita, o la riapre su nuovi terreni, Jaruzelski è il normalizzatore o ripropone la crisi in termini diversi, quali possono essere le conseguenze di questi eventi nella evoluzione della società e della politica sovietica?
Affrontare questi interrogativi è la condizione per sviluppare una solidarietà non verbale con il popolo polacco, e per lo stesso sviluppo della nostra battaglia in Occidente. Non c’è “presa di posizione” che possa bastare ad eluderli. Vorrei qui allora proporre solo qualche prima riflessione che serva ad avviare un dibattito su questo terreno e soprattutto a orientare il nostro che fare nei prossimi, decisivi mesi di lotta.
Il “caso polacco” è qualitativamente diverso dalle crisi che nel passato – in Ungheria, in Cecoslovacchia, nella stessa Polonia – hanno scosso quei regimi. Esso nasce da cause strutturali così profonde, mette in campo forze di tale ampiezza, si inserisce in un quadro internazionale tanto instabile, da costituire sia il rivelatore che l’innesco di un processo generale di crisi delle società, degli stati, dei rapporti tra gli stati nel campo del “socialismo reale”. La novità, immediatamente evidente del caso polacco sta infatti in questo. Esso non nasce, come gli altri, anzitutto sul terreno politico, e da una lotta interna all’élite dirigente cui poi si aggregano settori della società (come la crisi cecoslovacca del ’68), e tanto meno da un confuso ribollire di rivolta rapidamente inquinato dalla presenza di vecchie forze reazionarie (come fu il caso ungherese del ’56). Si presenta invece, fin dall’inizio, come frattura verticale tra il potere statale e una grande maggioranza autonomamente organizzata della classe operaia, alla cui base è direttamente presente un conflitto sociale connesso al precipitare di una crisi economica.
Esso colpisce dunque il sistema nel suo elemento costitutivo. C’è sempre stata infatti un’esagerazione ideologica nel definire quel potere “dittatura del proletariato” (o anche, nella più riduttiva formula trotskista, Stato operaio) perché l’incidenza della classe operaia sulla direzione politica di quei paesi, era assai indiretta e parziale. Ma non c’è dubbio che il fondamentale titolo di legittimazione del potere, e anche quanto c’era di consenso reale, si è fondato per decenni sul rapporto con la classe operaia. Tale rapporto non è stato in Polonia, e tanto meno in URSS, fondato solo su una mistificazione ideologica, ma su un autentico compromesso sociale e politico. Gli elementi costituenti di tale compromesso erano molteplici. Anzitutto: alla limitazione delle libertà sindacali corrispondeva un modesto ma costante aumento del tenore di vita, una piena stabilità dell’occupazione, una organizzazione del lavoro sopportabile, una buona organizzazione della sicurezza sociale. In secondo luogo, alla limitazione della libertà corrispondeva un forte grado di mobilitazione politico-ideologica, la coscienza, più o meno mistificata, di esercitare un ruolo storico di portata mondiale. Infine, alla permanenza di forti diseguaglianze nel reddito e nel potere, corrispondeva una accentuata mobilità sociale, un continuo processo di revisione e cooptazione nell’élite dirigente di cui la classe operaia era il principale serbatoio. Se non si coglie la portata di questi fattori, se si riduce tutto al meccanismo della repressione e degli apparati rivolti a garantire un potere arbitrario, non si capisce niente della storia di questi lunghi decenni, della forza interna di questi sistemi, e della loro influenza mondiale.
Ebbene, negli ultimi anni, per un lento accumulo di fatti che poi si sono annodati, gli elementi di questo compromesso sono entrati in crisi, nell’insieme delle società dell’Est. In Polonia la presenza di fattori specifici – ad esempio il ruolo della Chiesa cattolica o dello spirito nazionale – ha permesso a questa crisi di diventare esplicita e politicamente organizzata, ma è decisivo non perdere di vista il dato più generale e di fondo.
Sono in primo luogo – ed è questo il fatto di gran lunga più importante – venute meno le condizioni materiali del compromesso sociale. Il sistema di pianificazione centralizzato, che ha sempre comportato sprechi e inefficienze a livello di impresa, o nel rapporto tra produzione e consumo, per una lunga fase ha largamente compensato tali inefficienze con i vantaggi derivanti da una risoluta concentrazione di risorse nell’industrializzazione di base e da una piena mobilitazione delle risorse produttive. Ma esaurita la fase dell’industrializzazione primaria e della soddisfazione dei bisogni più elementari, sono venuti affiorando i problemi della produttività, delle scelte tra varie alternative di investimento, del ritmo di rinnovamento tecnico-scientifico, della qualità dei prodotti. Non sapendo e non volendo affrontare questi problemi con una riforma radicale dei meccanismi politici e dei metodi di gestione dell’economia socialista (il che comportava una vera rivoluzione culturale e sociale o invece più semplicemente la reintroduzione di meccanismi e valori capitalistici) le classi dirigenti (con particolare avventurosità quella polacca) hanno pensato di aggirare la questione giocando la carta dell’indebitamento nei confronti dell’occidente.
Quell’indebitamento doveva finanziare, ed ha finanziato, l’importazione di tecnologie e di impianti nella convinzione (sorretta da alcuni dati di fatto reali: ad esempio, la disponibilità di forza lavoro qualificata con modesti salari, la sicurezza e la stabilità di prezzo degli approvvigionamenti energetici) che quegli investimenti avrebbero rapidamente assicurato il flusso di esportazioni necessario a ripianare il debito e a fondare una permanente corrente di scambi.
Ma tale calcolo si è rivelato del tutto illusorio: non era possibile integrare in modo redditizio una nuova tecnologia, e il modello di consumo ad essa implicito, all’interno di un sistema a gestione burocratico-centralizzata, con una organizzazione del lavoro alla quale era legato il consenso operaio, con una società priva del retroterra di piccola e media imprenditorialità, e priva dei meccanismi di promozione che rendono l’individualismo molla di iniziativa produttiva e non solo di passivo consumismo. In una parola: assimilare il modello di sviluppo dell’occidente amputandolo del mercato e dell’impresa privata. Si sono moltiplicati gli sprechi, è cresciuta una pressione rivendicativa cui non corrispondeva qualitativamente e quantitativamente un incremento di produzione, le esportazioni sono cresciute poco e a prezzi non renumerativi, i debiti si sono cumulati tanto che materie prime e beni alimentari dovevano essere esportate per pagarlo, aggravando così drammaticamente una crisi, alimentare già in atto per la stagnazione della agricoltura e la crescita della domanda interna.
Ecco dunque tutti gli elementi di una crisi economica e di una conflittualità sociale non solo grave, ma legata non a errori facilmente correggibili di politica economica o di gestione, ma a cause generali e strutturali. (Così come lo è, per altri versi quella dell’occidente, ma con questo di diverso: la mancanza di quegli innumerevoli meccanismi di ammortizzazione, di elasticità, di reazione molecolare o di rivalsa verso l’esterno, che ormai in occidente si sono storicamente accumulati).
Nel frattempo – ma non abbiamo qui il modo di approfondire l’argomento – si erano già logorati anche gli altri elementi del compromesso tra classe operaia e potere. L’identificazione ideologico-politica tra masse e potere. L’identificazione ideologico-politica tra masse e potere non solo era declinata per naturale usura, ma anche per la scelta consapevole dei gruppi dirigenti i quali, a partire quanto meno dalla caduta di Krusciov, pur perpetuando il rituale ideologico, avevano scelto di stabilizzare il potere non più sulla mobilitazione, quanto sulla depoliticizzazione di massa, contando di ricostruire un rapporto di fiducia sull’attesa, e la progressiva soddisfazione, della domanda consumistica. Quanto al privilegio delle élites, esso ha progressivamente cambiato di natura via via che esse si sono stabilizzate, hanno trovato alimento piuttosto nella collocazione professionale che nel ruolo politico, è finito quel meccanismo di ricambio terribile che erano le “purghe” staliniane o anche kruscioviane: a questo punto la mobilità sociale si è esaurita, il privilegio è stato vissuto dagli esclusi come un vero privilegio di classe, ed ha a sua volta moltiplicato e involgarito i fenomeni di corruzione.
Tutto ciò spiega il carattere prevalentemente spontaneo, straordinariamente di massa dell’esplosione del 1980, il ruolo prioritario assunto dal sindacato come veicolo di ogni spinta al rinnovamento, la estrema concretezza delle rivendicazioni e delle forme di lotta, il rifiuto di ogni forzatura ideologica e la diffidenza per ogni leadership esterna, e il carattere tumultuoso ma anche autodisciplinato del movimento. Spiega la tenuta del movimento stesso, e la sua sorprendente capacità di contagiare e di coinvolgere, ma dal basso, i settori più diversi della società, gli stessi apparati statali, il partito comunista.
Spiega infine come e perché le grandi istituzioni, di fronte a un movimento di quella ampiezza e di quella vastità, e anche di quella esplosiva radicalità, abbiano voluto, e saputo, compiere sforzi molto seri, spesso coraggiosi e rischiosi, per evitare uno scontro frontale, per trovare un terreno di compromesso riformatore. Sforzi che hanno lasciato il segno. Mai un partito comunista al potere (e forse neppure non al potere) si è fino a tal punto aperto a rimettere in discussione la sua struttura interna, la composizione del suo gruppo dirigente, come quello polacco nel congresso di primavera. La Chiesa cattolica che pure portava in sé, in quel paese, per tradizione lontana e per le più recenti lotte di resistenza, un forte spirito integralista, ha avuto la grande saggezza politica di intervenire in ogni momento per ricucire un dialogo, per evitare una prova di forza che sapeva perdente. La stessa Unione Sovietica, che pure pesantemente interveniva con rozzi richiami ideologici e pesanti minacce, ha mostrato, di fronte al caso polacco una preoccupazione evidente, si è mossa cioè in modo ben diverso dai tempi di Praga.
Tuttavia tutto ciò non è bastato ad evitare l’esito che conosciamo. E anche di questo ci rende ragione proprio il carattere di fondo della crisi cui prima abbiamo accennato. L’estrema spontaneità, il carattere anzitutto economico-sindacale del movimento, che ne costituiva la forza, ne ha costituito anche, contraddittoriamente, la debolezza, quando il problema è diventato quello di consolidarne le prime, sostanziali conquiste. Perché il nuovo e autentico pluralismo politico, il diritto di sciopero, l’autorganizzazione operaia diventassero un fattore di mobilitazione di nuove energie produttive (anziché far precipitare la crisi economica), sarebbe occorsa una grande e organica riforma dell’economia e dello stato, una nuova leva di quadri. (E anche in quel caso, comunque, solo col tempo si sarebbero colti dei risultati – dopo un periodo di aspre difficoltà e pesanti sacrifici). Ma chi era in grado di pensare, promuovere e gestire una tale riforma, quale potere aveva la autorità e la fiducia per chiedere sacrifici oggi e garantire la trasformazione promessa? E d’altra parte poteva un tale movimento, al di là dell’evidente senso di responsabilità dei suoi nuovi leaders, accettare e rispettare una precisa priorità negli obiettivi, garantire spontaneamente i termini di un compromesso con il potere, anzi farsi direttamente carico dei problemi di una crisi economica che altri avevano prodotto?
Si è parlato e si parla molto dell’autogestione come risposta a questi interrogativi. E Solidarnosc ha disperatamente cercato, negli ultimi mesi, una soluzione in questo senso. Ma questa soluzione, in sé giusta, è tanto semplice sulla carta quanto ardua da realizzare. In Italia sappiamo qualcosa su quanto sia complesso trasferire una capacità operaia di lotta in una capacità di intervento sulla politica economica e sulla gestione delle imprese. Ma anche là dove questa esperienza è stata tentata con convinzione, e con il potere statale nelle mani, cioè in Jugoslavia, sappiamo quale grado di coesione politico-ideologica abbia presupposto, attraverso quale travaglio sia passata, e come a tutt’oggi sia difficile farla funzionare a un certo livello di sviluppo delle forze produttive, con quali limiti debba convivere sul piano della libertà politica e sindacale.
L’unico approdo possibile del caso polacco nella fase attuale (non certo una sua stabile soluzione) era quello di un faticoso compromesso tra il vecchio e il nuovo, qualcosa di molto più avanzato, per il dinamismo che lo animava, del prudente riformismo ungherese degli ultimi anni, ma non ancora una trasformazione qualitativa del sistema. Ma anche solo a tanto, le forze in campo nella società polacca non bastavano. Avevano bisogno del sostegno di paralleli processi di innovazione che dall’esterno allargassero loro gli spazi. Avevano cioè bisogno di una Europa occidentale che da un lato promuovesse con radicalità e coraggio la propria autonomia dalla leadership americana e offrisse e praticasse proposte vere di disarmo e di distensione, e che dall’altro, proprio per la posta in gioco, moltiplicasse il proprio sostegno economico alla Polonia ben oltre il semplice, e peraltro precario e faticoso, rinnovo dei crediti concessi. Avevano bisogno, poi, che, anche grazie a questa politica europea, procedessero alcuni tentativi di svolta politica e sociale in altri paesi del blocco orientale e nella stessa Unione Sovietica.
Tutto ciò è clamorosamente mancato. Ai governi europei, alla stessa sinistra, è del tutto sfuggita la drammaticità, l’urgenza, e la portata generale degli eventi polacchi: essi ne hanno totalmente prescisso nella loro politica economica e in quella militare. Nel dibattito sui missili di teatro e nel rapporto con l’amministrazione Reagan, l’idea che il caso Polonia offrisse – ove si consolidasse – un’ipotesi diversa da quella riarmistica (e ben più efficace) per garantire la nostra sicurezza, e che invece sbarrava la strada – ove fallisse – ad ogni rilancio della distensione, è stata sempre assente: l’ottusa contabilità dei generali di carriera o di quelli dilettanti ha sempre prevalso. Troppo tardi, e con riflessi troppo limitati sulla politica dei governi e dei grandi partiti, è intervenuto il movimento di massa per la pace, il solo, vero atto di solidarietà preventiva col popolo polacco.
Così la vicenda polacca ha imboccato la strada che portava al colpo di stato. La crisi economica è diventata via via disastrosa: non era certo del sindacato la responsabilità originaria di quella crisi, ma resta di fatto che in un anno la produzione, già dissestata, ha subito un calo di oltre il 20%; gli interessi dei debiti esteri, a tassi non certo generosi, hanno superato l’intero ammontare delle esportazioni. Gli approvvigionamenti mancavano. In queste condizioni, quali che fossero gli sforzi di moderazione del vertice sindacale, la conflittualità diffusa non poteva se non crescere, l’ostilità di massa verso un sistema le cui responsabilità e i cui errori sono a tutti evidenti diventava generale, la credibilità del nuovo partito uscito dal congresso diventava nulla, e altrettanto si logorava, nei confronti del potere, la credibilità dell’organizzazione sindacale come garante di qualsiasi intesa generale e duratura.
Il governo era così sospinto a chiedere leggi di limitazione del diritto di sciopero ma sapendo che, anziché normalizzare la situazione, esse sarebbero state l’occasione, il detonatore di uno scontro. Il sindacato aveva buone ragioni, e la necessità assoluta rispetto alla propria base, per rifiutarle, e anzi per chiedere una riforma generale dei metodi di gestione dell’economia. Si addensavano tutte le condizioni di una prova di forza e, in questo quadro, crescevano ogni giorno le probabilità di un intervento diretto dell’Unione Sovietica che, nella situazione polacca, sarebbe stato altrettanto brutale, ma assai meno rapido e incruento di quello in Cecoslovacchia.
In questo quadro è nato il colpo militare, la proclamazione dello stato d’assedio, paradossalmente promosso da coloro che avevano più di altri cercato un’intesa, e ottenuto fiducia, da parte di Solidarnosc. L’intervento dei militari, pur indicativo di processi profondi di modificazione nella struttura del potere nelle società dell’est, non deve infatti indurci a interpretazioni sommarie del tipo: “è già successo in Cile, con Pinochet”. L’esercito polacco non aveva la stessa collocazione nella società, né era dominato dalle forze speciali, come quelli del Sud America, ed era percorso dai valori dell’autonomia nazionale. Questo, non a caso, era stato per un anno un punto di forza per il movimento, dissuadendo i vecchi gruppi dominanti dal tentare colpi di mano repressivi. E altrettanto non a caso Jaruzelski era stato portato alla segreteria del partito dall’ala riformista del partito. Se dunque è profondamente sbagliato, oltre che ingiusto, dare “all’estremismo di Solidarnosc” una qualche responsabilità nell’aver provocato il colpo di stato, è altrettanto falso descrivere quel colpo di stato come un intervento violento dei più vecchi ed ottusi settori della classe dominante che direttamente agivano per conto del Cremlino per soffocare un processo riformatore in pieno e positivo sviluppo e che li minacciava. Per quanto sciagurata sia stata la scelta dello stato d’assedio – e diremo poi quanto e perché lo sia – l’itinerario è stato più complesso.
So bene che questa ricostruzione e interpretazione di ciò che è avvenuto e avviene in Polonia, per quanto difficilmente contestabile sul piano dei fatti e convincente nella sua logica, cioè fondamentalmente “vera”, può apparire a molti in questo momento politicamente inopportuna perché rischia di ottenere effetti politici opposti a quelli che ci proponiamo, cioè di ostacolare anziché incoraggiare qui da noi un movimento di solidarietà piena nei confronti di coloro che in questo momento in Polonia subiscono la repressione. Il vecchio assioma secondo cui la “verità è sempre rivoluzionaria” non è infatti facile da applicare. La “verità” è spesso complessa, ha molte facce, e attiene alla scelta politica decidere quale di queste facce mettere in particolare evidenza. In questo caso, io stesso mi sono chiesto e mi chiedo, se non sia più giusto e utile, in questo momento, insistere piuttosto su altri elementi, altrettanto veri e importanti: la descrizione partecipe della repressione brutale che è in atto, la riaffermazione appassionata, ed ora assai più convincente, di principi come quelli in base ai quali non ha senso parlare di un “socialismo” che dopo trent’anni non riesce a conquistare consenso, a offrire spazi minimi di libertà, pretende di imporsi con la forza alla grande maggioranza degli operai, fa delle alleanze internazionali non una garanzia ma un vincolo soffocante.
Non c’è il pericolo infatti che considerando queste cose – che per noi sono un po’ scontate, mentre non lo sono affatto nella testa di milioni di lavoratori – e impegnandoci in una analisi più determinata e complessa del caso polacco e della crisi del “socialismo reale” finiamo per fornire un alibi a quanti – per semplice opportunismo o per irriducibile filosovietismo – vogliono considerare lo stato d’assedio il male minore, e passivamente attendono che la situazione si “normalizzi”?
Questo pericolo c’è. Ma a ben riflettere e guardando a come vanno le cose, è altrettanto, e forse ancor più forte il pericolo che ad impedire la crescita, e soprattutto a ridurre l’efficacia, di un vasto e permanente movimento di lotta in occidente a sostegno della causa polacca, concorrano altri elementi. Da un lato infatti la convinzione diffusa che ormai il peggio si è compiuto, la partita si è chiusa spinge molti, in buona fede, alla rassegnazione o alla testimonianza appassionata ma verbale, mentre un grande e permanente movimento politico ha assoluto bisogno della fiducia che qualcosa si può fare, e dunque di vedere se ci sono nella realtà spazi e possibilità su cui intervenire. Dall’altro lato la convinzione, altrettanto diffusa, che il sistema dell’est non è riformabile, che esso ricompone con la forza le crisi che si aprono al suo interno, spinge a sottovalutare le tremende minacce che invece possono di là venire nel momento in cui la crisi si approfondisce e si generalizza, spinge dunque a un ripiegamento sulle “cose nostre”, a un illusorio isolazionismo occidentalista, dunque a considerare la vicenda polacca ormai solo un’occasione di riflessione, di ridefinizione della nostra identità, e non un terreno di lotta dei cui risultati concreti dipende anche il fatto che si riesca a portare avanti un’esperienza nuova di trasformazione sociale in occidente.
Ora, a me pare che entrambe queste paralizzanti tendenze possano essere invece corrette e superate proprio a partire dall’analisi concreta che abbiamo qui solo avviato. Perché essa mette in piena luce che il colpo militare di Jaruzelski non chiude affatto, sia pure solo per alcuni anni, una partita che anzi resta drammaticamente aperta. In un duplice senso: nel senso che il regime militare attuale contiene in sé contraddizioni non risolte e può dar luogo a sviluppi diversi, per le forze che lo gestiscono, la capacità di resistenza con cui si scontra, la dinamica internazionale in cui si colloca; e nel senso che, se tale ambiguità si risolve in modo definitivamente negativo allora non si avrà una stabilizzazione del campo dell’est, ma piuttosto un precipitare al peggio della sua crisi, fino al punto da rendere tragicamente probabile l’eventualità di una guerra.
Vorrei cercare di chiarire meglio entrambi i lati di questa contraddittoria realtà, di questa ambivalenza non spenta di prospettive sulla quale siamo tutti chiamati a intervenire.


  1. Le assicurazioni di Jaruzelski di voler conservare gran parte delle riforme compiute in quest’anno e riallacciare le fila di un dialogo con l’opposizione, non sono solo una copertura ipocrita della repressione, e non esprimono solo una patetica aspirazione soggettiva. Riflettono corposi condizionamenti presenti nella realtà. Il nuovo potere si regge su uno schieramento di forze che non può fare a meno dei settori più aperti del vecchio partito e dell’esercito stesso. Ha di fronte una resistenza popolare e operaia straordinariamente estesa, tenace e anche capace di evitare forzature violente perdenti. (Ecco un’altra differenza fondamentale con situazioni del tipo cileno: malgrado la drammaticità della crisi economica il nuovo potere non può contare sulla mobilitazione di vasti settori sociali che vogliono la restaurazione e chiedono ordine ad ogni costo). Il rapporto con la Chiesa cattolica non può essere tagliato di netto, una sua parziale cauzione è indispensabile per ogni potere che voglia evitare il bagno di sangue e l’invasione straniera. Le condizioni materiali indispensabili a qualsiasi riorganizzazione produttiva dipendono dall’approvvigionamento e dal credito esterno, che l’Unione Sovietica non è in grado da sola di garantire. La stessa unità del partito e dell’esercito non reggerebbe a una estrema radicalizzazione. I generali insomma sanno che un passo ulteriore in direzione dello scontro, una rottura politica definitiva con il vertice sindacale, con la Chiesa, con l’ala riformista del partito, con i governi occidentali non “normalizzerebbe” nulla, ma farebbe crollare il loro edificio, renderebbe del tutto ingovernabile la situazione, e indispensabile un intervento sovietico massiccio e sanguinoso. La stessa Unione Sovietica non può considerare a cuor leggero questa eventualità. Un intervento militare in Polonia rischia di essere lungo, sanguinoso e logorante. E soprattutto avrebbe per lei conseguenze pesantissime. Pesantissime sul terreno dei rapporti internazionali, saldando definitivamente l’occidente intorno all’amministrazione Reagan e ad una sua politica ancor più aggressiva, e aprendo nuovi terreni di scontro nel mondo. E pesantissime sul piano economico: prendersi sulle spalle il peso dell’economia polacca vuol dire per l’URSS oggi rendere drammatiche le proprie difficoltà di approvvigionamenti alimentari e soprattutto uscire brutalmente dal mercato internazionale. Il debito della Polonia con l’occidente è tale che l’URSS non può assumerlo senza bruciare totalmente le sue riserve di moneta forte, e diventare a sua volta insolvente. Tanto più che la crisi ormai stringe altri paesi del campo (ad esempio la Romania) e colpisce la stessa economia sovietica. Ecco gli elementi di fatto, soggettivi e oggettivi, che offrono qualche base reale ad uno sforzo, interno ed esterno, rivolto a bloccare la spirale aggressiva e a riaprire gradualmente spazi per una ripresa del processo riformatore.
  2. Ma questi stessi elementi portano a prevedere che, se rapidamente non si riesce a far cessare lo stato d’assedio e ad avviare un processo contrario, la situazione non può reggere, la crisi polacca compirebbe un nuovo e più tragico salto di qualità e trascinerebbe con sé, e nella degenerazione, l’intero sistema dell’est europeo portandoci vicino a un conflitto generale. Per molte ragioni. Anzitutto la repressione, prolungandosi, ha una sua logica incontrollabile, che rapidamente travalica anche le intenzioni di chi la esercita e travolge le prudenze di chi la subisce. Già in questi giorni il protrarsi della prigionia dei dirigenti sindacali, il moltiplicarsi delle iniziative di epurazione, l’accumulo dei conflitti locali restringono le possibilità di un compromesso, cambiano le basi del nuovo regime, lo trascinano in una spirale catastrofica. In secondo luogo la crisi economica si aggrava ulteriormente. Quali che siano – e sono ancora incerte – le decisioni dei governi occidentali è certo che sul mercato finanziario mondiale nessuno è disponibile a rinnovare e tanto più ad accrescere il credito ad un sistema di cui non si intravede il futuro. E poiché la crisi economica, ben più che gli scioperi, è immediatamente legata a un assenteismo diffuso e a una incapacità dell’apparato burocratico, non si vede come possa porvi riparo il semplice uso di leggi eccezionali. L’aggravamento stesso della crisi, con il carico di sacrifici e di malcontento popolare che è destinato a produrre, non può che togliere spazio ad ogni mediazione, accelerare uno scontro ulteriore di cui l’intervento sovietico diventi la conseguenza non voluta ma fatale. E a quell’intervento, come già dicevamo, seguirebbe un blocco immediato delle trattative sul disarmo, forse misure di rappresaglia in altri settori del mondo, comunque il blocco dell’interscambio commerciale (non le pure “sanzioni” vacue quanto arroganti). E come potrebbe svilupparsi a questo punto la situazione in tutto il blocco sovietico se non nella direzione disperata della militarizzazione e del nazionalismo, e quella in occidente se non con una accentuata svolta reazionaria? Questa, a noi sembra, e senza esasperazione, la situazione reale, questi i drammatici dilemmi presenti sul campo. Per fare un’analogia – sommaria come ogni analogia, ma piena di significato – potremmo dire che la vicenda polacca può assumere, nella nostra epoca, un valore analogo a quello che ebbe, negli anni trenta, la guerra civile in Spagna. La Spagna allora, infatti, non fu solo uno tra i tanti tentativi rivoluzionari che si conclusero in una sconfitta; fu prima il punto su cui si annodarono tutte le forze e le speranze rinnovatrici che una crisi mondiale mobilitava, e poi una sconfitta che costituì il vero antefatto di una guerra che pure scoppiò altrove. Solo la piena consapevolezza di questo dato può offrire le basi, e costituire il metro di misura, della nostra mobilitazione.

A questo punto ci pare possibile trarre dall’analisi alcune conclusioni che abbiano un valore orientativo nella pratica politica del prossimo futuro.

  1. Appare evidente, anzitutto, come del resto lo era prima del 13 dicembre, che se c’è ancora qualcosa da salvare per il popolo polacco – e abbiamo visto che qualche possibilità resta aperta – ciò dipende in larghissima misura dal tipo di sostegno internazionale che rapidamente e permanentemente si riesce a mobilitare. Data l’asprezza dello scontro in atto, e il ritmo del suo sviluppo, una solidarietà che si misuri col metro delle dichiarazioni appare del tutto inadeguata. Anche ai pronunciamenti critici dei più autorevoli partiti comunisti occidentali i sovietici sono ormai abituati da tempo, e certo ne hanno messo in conto di nuovi e più radicali. Ciò che può realmente pesare sulle scelte loro, e per altro verso su quelle dei militari di Varsavia, è solo la crescita in Europa di un movimento di massa della forza e dell’estensione di quello che in questi mesi è esploso sui temi del disarmo e della pace. Un movimento che unifichi tutte le forze sociali, culturali e politiche progressiste, e che in particolare riesca a coinvolgere, come protagonisti, le masse operaie e giovanili. È un movimento capace di legare strettamente la lotta per la democrazia in Polonia ad una rinnovata proposta di disarmo e di pace, e in questo senso capace di influire sulle scelte dei propri governi. Cosicché i dirigenti dell’Est sappiano che dietro gli operai polacchi non vi sono solo o tanto i loro tradizionali avversari ma anche e soprattutto i loro soli interlocutori possibili. Per questo occorre che molto più di quanto non abbia fatto in queste settimane, la sinistra italiana si impegni attivamente in un lavoro di mobilitazione di massa, e che tale movimento sia costruito in totale continuità con quello che già preesisteva sui temi della pace. Certo potrebbe tornare comodo a chi – i socialisti da un lato, noi e la nuova sinistra dall’altro – ha nel passato giustamente criticato impacci e reticenze del Partito comunista, usare il dramma polacco per riaffermare la giustezza di proprie scelte passate e acquisire consensi. Potrebbe apparire prudente per il Partito comunista limitare al minimo i danni possibili, accompagnando alle coraggiose prese di posizione, che incontrano favore all’esterno ma non poche resistenze nella sua base, un impegno assai tiepido nell’organizzare scadenze di massa sulle quali tali resistenze potrebbero emergere e coagularsi. Ma se tutto ciò avvenisse l’intera sinistra si troverebbe presto in un vicolo cieco, impotente e sconfitta. Un reale movimento sulla Polonia non ci sarebbe, quello che già esiste si romperebbe in diversi tronconi, e la capacità di condizionare gli sviluppi del caso polacco sarebbe nulla.
  2. L’obiettivo a breve termine che questo movimento dovrebbe e potrebbe avere, è quello di ottenere il rilascio dei prigionieri politici, il ripristino di un minimo di dialettica politico-sociale, la ripresa di un dialogo e di una trattativa tra le parti. Niente di più, niente di meno. Niente di più perché sarebbe vacuo e irresponsabile proporsi, nella situazione data, un pieno rovesciamento del governo militare a Varsavia: a vincere uno scontro frontale non bastano le forze, e una tale radicalizzazione aprirebbe la strada solo alla più tragica e irreversibile delle sconfitte. Niente di meno, perché se entro i prossimi due – tre mesi non si ottiene in modo concreto e visibile un rovesciamento di tendenza, la situazione non può non degenerare fino ad essere definitivamente compromessa. Va detto, proprio per questo, qualcosa di chiaro sulla questione “degli aiuti” che è molto discussa e non può essere sciolta semplicisticamente. Qui non si tratta di essere più o meno drastici nella condanna del governo golpista. Si tratta di valutare cosa serve e cosa nuoce. Se le cose stanno come abbiamo qui cercato di descriverle, è evidente che aggravando le difficoltà della economia polacca si restringono gli spazi oggettivi possibili per un compromesso positivo, più di quanto non si riesca ad esercitare un vincolo sugli orientamenti del governo. Sospendere gli aiuti finanziari, e tanto più quelli alimentari, o chiedere che essi seguano canali tutti esterni allo stato polacco, dunque non serve, anzi fa danno. Così come fanno danno le decisioni di sanzione annunciate da Reagan, perché dimostrano insieme un atteggiamento politico troppo arrogantemente ricattatorio per essere efficace, e un meschino timore di non varcare comunque la soglia oltre la quale anche interessi economici occidentali avrebbero a dolersi. Può servire invece mostrare con determinazione e chiarezza all’Unione Sovietica quali sarebbero le ritorsioni economiche nel generale interscambio est-ovest ove precipitasse un loro intervento diretto in Polonia: una minaccia cioè rivolta selettivamente alla sede da cui possono venire le scelte più pericolose, adeguata alla posta in gioco, e rivolta comunque a evitare la dinamica ben peggiore dei reciproci ricatti militari.
  3. Ma ciò che più conta – se è vero che il 13 dicembre è stata la conclusione di una crisi molto profonda la cui soluzione va oltre le scelte immediate e le possibilità interne al quadro polacco – è il tipo di obiettivi a medio termine che il movimento assume e riesce gradualmente a realizzare. Perché senza di questo ogni compromesso parziale diventa impossibile, o comunque del tutto precario. Ciò che anche su tale terreno possiamo qui in occidente fare non è poco.

Da un lato possiamo prospettare, e rendere con le scelte pratiche credibile, la possibilità di un parallelo superamento dei blocchi politico-militari in Europa. Ciò che Mitterrand ha detto in questi giorni è sacrosanto, anche se la politica del governo francese non si è mossa esattamente finora in tal senso. Il colpo di stato a Varsavia è l’ultimo tra i molti frutti avvelenati (e anche tra quelli che non lo erano affatto) dell’accordo di Yalta; e non si può cambiare le cose in Polonia se non ci si dispone, in occidente, a muoversi immediatamente e coraggiosamente in direzione del superamento di quell’assetto. Proprio perché il caso polacco è tanto intrinsecamente eversivo di un sistema vitalmente legato al monolitismo, è impensabile che esso sopravviva e si sviluppi senza che l’Europa occidentale, nella sua politica militare, economica, diplomatica si affermi come forza autonoma rispetto al tradizionale blocco di appartenenza. Senza che, tanto per fare un esempio, essa non dica chiaro quanto c’è di mistificatorio nella proposta reganiana della opzione zero, si pronunci per un vero e generale smantellamento di tutte le armi nucleari di teatro, sospenda l’installazione dei nuovi missili per forzare il corso della trattativa di Ginevra, si disponga a mettere in discussione anche la forza atomica di dissuasione franco-inglese, rinunci all’assurdo progetto di estendere ulteriormente il patto atlantico a nuovi paesi, come la Spagna.
Dall’altro lato, e correlativamente, si può proporre in modo radicale una politica di disarmo. Questo è infatti il punto di approccio più concreto e più importante attraverso cui affrontare in termini di fondo la questione del “socialismo reale”. L’idea di una distensione garantita dall’equilibrio ma senza disarmo, o come premessa del disarmo, ha funzionato fino a che si poteva contare su una espansione stabile dell’economia dei due sistemi. Ma quando quella espansione si è arrestata, mantenere gli attuali livelli di spesa militare (anche ammesso si riuscisse a conservare il più perfetto degli equilibri) vuol dire sacrificare a tal punto le necessità degli investimenti produttivi e delle spese sociali, rafforzare a tal punto il peso relativo dell’apparato militare, da produrre necessariamente una spinta all’autoritarismo interno e all’aggressività verso l’esterno. E ciò vale in misura particolarissima per l’Unione Sovietica e per i paesi dell’Est, che si trovano di nuovo a vivere una situazione sfavorevole nel rapporto di forza economico, devono sostenere una spesa militare enormemente superiore rispetto al loro reddito nazionale, devono assorbire nell’apparato militare la maggior parte delle loro scarse risorse in termini di tecnologica avanzata e di energie intellettuali, e che per questo non possono costruire sul benessere un consenso interno né quindi lasciare spazio alla dialettica sociale.
Solo una risoluta politica di disarmo può costituire perciò la premessa di una nuova e positiva fase storica in un tipo di società altrimenti bloccata e la cui politica, nella crisi, può disastrosamente degenerare.
Non a caso dico premessa. Perché l’impasse a cui è giunto il “socialismo reale” è molto grave: non solo infatti esso non appare un sistema riformabile dall’interno, gradualmente, per iniziativa delle sue classi dirigenti, senza trasformazioni radicali e laceranti rotture; ma non appare finora neppure in grado di far crescere forze sociali, politiche, culturali capaci di promuovere tali trasformazioni, di governare tali rotture, insomma di costituire un’alternativa. Diversamente da quanto credono in molti non c’è affatto contraddizione tra il riconoscere fino in fondo il valore centrale della rivoluzione d’Ottobre nella storia del nostro secolo, anzi il ruolo che essa per decenni ha assolto come elemento portante dei maggiori processi di liberazione sociale, nazionali e anche politici, e il riconoscere fino in fondo i processi degenerativi che via via sono concresciuti con questa esperienza fino all’impasse attuale. Questo paradosso (che spiega la difficoltà di tanti milioni di uomini che a buon diritto collocavano lì le ragioni della loro speranza e resistono a riconoscere le attuali realtà) è solo apparente, e non è neppure storicamente del tutto nuovo. Il fatto – assai semplice, ma mai abbastanza indagato – è che quelle rivoluzioni, socialiste per gli obiettivi che si ponevano, per il modello culturale cui si riferivano, si sono sviluppate in un contesto materiale e culturale nel quale al socialismo mancavano molte delle premesse necessarie: sono state l’altra e necessaria faccia di una rivoluzione borghese che, evolvendo nell’imperialismo, si è rivelata organicamente incapace di unificare il mondo. Sono state le porte strette attraverso cui è dovuta passare la modernità e la liberazione per tutta una parte del mondo. Esse hanno quindi dovuto cercare di risolvere in pochi decenni problemi elementari e terribili che l’occidente aveva risolta attraverso secoli, secoli, non dimentichiamo, pieni di durezza e di sangue, di dispotismi, e soprattutto di sfruttamento coloniale e imperiale. Ed hanno dovuto affrontarli essendo prive di un retroterra tecnico, culturale, nazionale – che proprio la dominazione imperialista aveva precedentemente disgregato – e dovendo subire il ricatto militare e il condizionamento tecnico-scientifico del sistema tuttora dominante a livello mondiale.
Qui – ben più che nelle pur reali forzature autoritarie della dottrina marxista-leninista – sta la chiave per comprendere l’ossificazione di un sistema di potere, fino alle peggiori degenerazioni, e qui la chiave per comprendere come tuttora rivoluzioni che col marxismo-leninismo in partenza nulla hanno a che fare finiscono per assumere nella pratica lo stesso modello.
Tutto ciò spiega meglio il passato (e rende ridicole tante richieste di abiura del passato rivolte a noi comunisti) rende meno, ma più difficile il presente e oscuro il futuro. Perché dimostra la profondità e la oggettività della crisi cui il “socialismo reale” è avviato, e insieme una sua possibilità di continuare a riprodursi in tanta parte del mondo: secondo una dialettica perversa con l’occidente in declino, nella quale l’un sistema alimenta la degenerazione dell’altro, in una prospettiva di generale imbarbarimento.
Ora, l’elemento che unifica questo passato e questo presente resta l’incapacità, il vuoto di una alternativa rivoluzionaria in occidente. Se infatti è impensabile teoricamente – e praticamente comporterebbe comunque una guerra mondiale – la prospettiva di reintrodurre in quelle società semplicemente un modello capitalistico (che del resto non riesce ad estendersi neppure alla periferia del proprio stesso impero), è altrettanto difficile immaginare che un nuovo tipo, libero e autogestito, di società comunista, nasca anzitutto e dall’interno di quei sistemi. Se coniugare proprietà collettiva e libertà politica, superare il carattere formale e rappresentativo della democrazia politica, eliminare la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale è possibile – ammesso che, come noi crediamo, lo sia – ciò presuppone non solo un grandissimo livello di partenza delle forze produttive, ma un tessuto di consuetudini democratiche, un livello culturale e una capacità di autorganizzazione politica delle masse, che solo una lunga e fortunata storia sedimenta. Il problema della centralità della rivoluzione nei punti più alti, che Trotski assolutizzò, ma che nello stesso Lenin non venne mai meno, torna ad assumere un valore dirimente: si tratta di verificare se questa lunga “premessa” offerta dalle rivoluzioni della prima metà del secolo, offra oggi più ampio spazio di quanto non frapponga nuovi ostacoli alla sua soluzione.
Ecco dunque come il “caso polacco” conduce direttamente al tema della “terza via”. Perché se anche non fossero stati sempre evidenti i limiti intrinseci del modello di civiltà che l’esperienza socialdemocratica ha in occidente prodotto, e non fosse oggi evidente come anch’essa sia ormai entrata in crisi per interne dinamiche, basta l’esistenza stessa del “socialismo reale”, la sua persistente capacità diffusiva, a dimostrare come la “prima via” abbia fallito nel punto essenziale, cioè nell’offrire un modello di unificazione possibile del mondo.
Ma è proprio su questo terreno che nascono gli interrogativi più complessi e difficili. Certo, è oggi possibile riempire libri interi di analisi convincenti sulla crisi dello stato sociale; è possibile ogni giorno e per ogni paese trovare nel movimento di massa o nello stesso dibattito politico un bisogno diffuso di una società diversa, la crescente consapevolezza dei limiti delle strade finora sperimentate. Ma siamo – come movimento operaio occidentale – capaci già oggi di dare a questo concetto di “terza via” precise connotazioni programmatiche, di individuare forze sociali e itinerari politici concreti che possano sostenerla, imporla e poi gestirla, così che essa non si riduca ad indicare un’esigenza, a definirsi solo in negativo, per il contemporaneo rifiuto o più spesso la composizione eclettica dei modelli esistenti?
Occorre riconoscere quanto sia difficile rispondere affermativamente: e non solo e non tanto perché incompleta e disorganica è la ricerca teorica, ma anche e soprattutto perché è ancora incerta la volontà politica. Non è su questa ipotesi che la sinistra europea ha finora lavorato nel passato anche recente; e del resto anche oggi la fastidiosa vaghezza del concetto di “terza via” serve spesso di copertura a scelte politiche molto oscillanti, a pratiche aperte verso diverse prospettive.
Ma poiché il “caso polacco”, con tutto ciò che ne viene, impone scadenze pressanti, al di là delle quali il tema della “terza via” avrebbe solo un valore verbale, ecco sorgere, quale preliminare, un altro interrogativo.
Quali forze politiche dovrebbero e potrebbero oggi in Europa stringere i tempi di questa ricerca, avviare questa esperienza?
Diciamo la verità. Nei paesi dove non esistono grandi partiti comunisti, come la Germania, è presente un dibattito sulla “terza via”, ma è un dibattito che ha alle spalle una lunga esperienza di ortodossa gestione del sistema e un movimento operaio privo di recenti e significative di lotta, ed ha di fronte a sé un sistema economico e politico estremamente forte e tuttora marginalmente intaccato dalla crisi.
In altri paesi invece, come l’Italia, dove la crisi è ben più profonda e matura, dove c’è ancora il sedimento storico di grandi e recenti lotte portatrici di contenuti avanzati, di nuovi soggetti, di nuove esperienze organizzative, l’alternativa politica possibile è fondamentalmente rappresentata da un forte partito comunista. Ebbene, può assolvere un Partito comunista, già in qualche misura intaccato dall’insuccesso della politica di unità nazionale, un ruolo di tale portata proprio nel momento in cui, con la crisi dell’est europeo, viene meno il suo punto storico di riferimento, e in cui dunque, diventa più difficile non solo acquistare la piena fiducia degli altri, ma anche ottenere una piena mobilitazione dei propri militanti? È possibile far quadrare questo cerchio, con una linea di “rinnovamento nella continuità” senza cioè porsi un vero problema di rifondazione?
Come ha reagito infatti la sinistra italiana agli avvenimenti polacchi, quali tendenze latenti essi hanno portato in piena luce e quali nuove dinamiche avviano?
Nel Partito socialista è venuta una nuova potente spinta a sciogliere le residue ambiguità su cui per una lunga fase il craxismo si era costruito. Anzitutto sul terreno della sua collocazione ideale e strategica. Esso poteva infatti trovare nei fatti polacchi, e nelle nuove posizioni cui il Pci era costretto, l’occasione per l’avvio di una fase di ricostruzione dell’unità a sinistra, anzi di un’unità a sinistra su cui l’ipoteca della tradizione socialdemocratica potrebbe essere molto marcata. Ma la scelta è stata del tutto diversa, anzi opposta. Non è tanto significativo il fatto che i socialisti abbiano assunto toni particolarmente risoluti nella condanna del socialismo reale, abbiano aperto la polemica con Brandt chiedendo a gran voce le sanzioni economiche, denuncino le passate ambiguità del Pci o anche le sue attuali reticenze, magari con qualche forzatura propagandistica. Decisivo è il fatto che tutto ciò si accompagni, e si qualifichi, con un rifiuto netto, radicale a discutere il tema stesso della terza via, a riconoscere che anche nella società occidentale si pone il problema di una trasformazione di sistema, e anzi chiedano ormai più di chiunque altro una scelta senza sfumature: o con Mosca o con l’occidente. Quanto a loro, tale scelta la fanno senza più mezzi termini, e la traducono in proposte operative: nella politica economica, nella politica istituzionale, nella politica estera e militare. Non a caso l’articolo – manifesto con il quale Agnelli ha abbandonato il campo dei nostalgici dell’unità nazionale, conteneva un tentativo di assimilazione tra Reagan e Mitterrand. Craxi gioca chiaramente la carta di questa arrischiata assimilazione. La sua richiesta di crisi di governo e di elezioni anticipate va oltre un calcolo tattico e elettorale, anzi accetta di pagare il prezzo di un isolamento e magari anche la perdita di qualche consenso, pur di prendere in mano – per guadagnarne altri – la bandiera del “così non si può andare avanti” di rivolgersi al paese, o a una certa parte del paese come colui che promette un governo risoluto, capace di battersi e anche di realizzare i cambiamenti necessari perché il sistema riprenda a funzionare. Inutile ripetere qui e ora le ragioni per le quali questa proposta non può funzionare, perché è vuota di contenuti adeguati alla crisi reale del paese e non ha un blocco di forze sociali su cui coerentemente fondarsi; come sia perciò destinata ad aprire la strada a maggiore instabilità e ad una crisi istituzionale. Il dato di fatto è che su questa strada il Partito socialista si muove nel dopo Polonia senza più grandi remore. L’alternativa democratica come la pensavano Giorgio Napolitano, o per altri versi Eugenio Scalfari, riceva, dai fatti polacchi, anziché uno stimolo, un colpo definitivo.
Non a caso dunque il Partito comunista ha reagito a questi eventi in un modo diverso e a nostro avviso decisamente positivo: cercando cioè di coniugare una più netta presa di distanza dalla politica e dal sistema dell’Unione sovietica con un più convinto impegno sul tema della terza via. Non è un tentativo solo verbale. Il documento sulla Polonia infatti è stato preceduto e accompagnato da interventi di Berlinguer, e da un Comitato centrale che cominciavano a dare al concetto di “terza via” connotazioni più univoche o quanto meno una ispirazione nuova, al di là ormai dalla cultura dell’unità nazionale e in una direzione nella quale il nostro lavoro e la nostra ricerca da molto tempo sollecitavano tutta la sinistra. Mi riferisco sempre alla questione della maturità del comunismo, alla critica delle concezioni quantitative dello sviluppo, alla priorità del rapporto tra classe operaia, nuovi soggetti sociali e masse emarginate del terzo mondo: tematiche che per la prima volta hanno trovato qualche riflesso anche nella elaborazione di politica economica con il nuovo documento programmatico.
Tutto ciò avviene però con un limite che rischia di rendere tuttora la “svolta” teoricamente fragile e politicamente inefficace. Non penso solo, né soprattutto, al permanere di una sempre più evidente contraddizione tra ispirazione generale e comportamenti pratici, a quella schizofrenia tra due linee che non s’incontrano mai perché si esercitano a due diversi livelli, su cui ancora di recente non abbiamo appuntato la critica. Penso piuttosto a un elemento di impostazione di fondo che poi è alla radice di tale dissociazione e impedisce di superarla e che gli avvenimenti polacchi rendono più chiaro: e cioè al permanere, nella stessa impostazione berlingueriana della formula tradizionale del “rinnovamento nella continuità”.
Ora, la nostra convinzione, invece, è che gli avvenimenti polacchi, e l’aggravamento della crisi italiana (sul quale ora non ho modo di soffermarmi analiticamente) rendono tutto ciò impossibile.
Impossibile, anzitutto, sul piano dell’analisi storica e dell’elaborazione teorica. Il rapporto di solidarietà politica con l’Unione sovietica (non solo dunque un giudizio storico positivo sulla rivoluzione d’Ottobre) non è stato solo il punto di avvio del partito comunista italiano, o la necessità di una fase storica particolarmente aspra, o il mito su cui si è inizialmente costruito un certo rapporto con le grandi masse: è stato un elemento fondante di tutta la strategia togliattiana anche dopo il ventesimo congresso, dopo la critica dello stalinismo e dopo il rifiuto del modello sovietico. L’unità nella diversità è stato un elemento caratterizzante della “via italiana”: la ricerca autonoma di un nuovo tipo di socialismo in occidente intanto era infatti ritenuta possibile (senza approdare alla rinuncia socialdemocratica) in quanto poggia sui nuovi rapporti di forza mondiali determinati dalla presenza vittoriosa dell’Unione sovietica e su un processo di diversa, ma parallela trasformazione democratica delle società dell’est, garantiti – l’una e l’altra – dallo sviluppo delle moderne forze produttive e della cultura di massa.
Lo sviluppo, quantitativo e qualitativo, del “campo socialista” e l’unità di esso con il movimento di liberazione del Terzo mondo erano non a caso, ancora nel memoriale di Yalta, il retroterra indispensabile della via italiana al socialismo. Se, ad esempio, i due elementi costitutivi del modello leninista (statalizzazione dei pezzi di produzione e dittatura del proletariato) potevano essere – nella “via italiana” – scavalcati senza lacerazioni teoriche e politiche, e senza un grande sforzo di riflessione, era proprio perché i successi materiali dell’economia pubblica avrebbero via via reso possibile in occidente una convivenza con l’impresa privata e un suo superamento graduale, e perché lo sviluppo del sistema socialista avrebbe reso possibile una rivoluzione sociale senza rottura della continuità statale, con un massimo di consenso e un minimo uso della forza.
Tutto ciò si rifletteva ben dal profondo della tradizione e della politica comunista in Italia: ritardava la critica qualitativa al modello di civiltà neocapitalistica, rendeva insensibili alle tematiche dei “nuovi soggetti” e dei “nuovi bisogni”, protava ad una profonda fiducia nell’irreversibilità della distensione; permetteva la “coesistenza pacifica” tra centralismo democratico, partito di massa e partito di opinione. Ancora la politica del compromesso storico aveva questo retroterra e ne enfatizzava i limiti.
Il “rinnovamento nella continuità”, ripeto, era l’altra faccia dell’”unità nella diversità”. Ora io mi chiedo se è possibile, storicamente e teoricamente, dichiarare che viene meno (ed effettivamente viene meno) il primo termine senza rimettere in discussione il secondo? Se si toglie al togliattismo il suo rapporto organico, se pure autonomo e critico, con l’URSS, senza rimuovere a fondo strategia e contenuti della “via italiana”, se per così dire si identifica “via italiana” e “terza via” non è facile che, al di là delle intenzioni, questa terza via assomigli pericolosamente alla social democratizzazione? Non diventa decisivo dare nuove e visibili basi fondative alla “diversità comunista”?
Qui del resto stanno, in parte inconsapevoli, le ragioni più serie e reali delle resistenze della base comunista, non solo quella vecchia e tradizionale – rispetto alle posizioni assunte dal Pci sulla Polonia. Qui il solo “argomento forte” tra i tanti inconsistenti usati da Cossutta. Alla stessa conclusione del resto si arriva anche considerando lo stesso problema non con un approccio storico-teorico ma partendo da una realistica constatazione della situazione politica italiana.
È evidente a tutti che andiamo verso una radicalizzazione dello scontro politico e sociale. Anche a prescindere dalle iniziative di Craxi o di altri sul terreno specificatamente politico-parlamentare, sono i dati reali della situazione del paese che portano a questo scontro: la crisi economica non solo si aggrava, ma assume la forma, ben più aspra, della recessione e della disoccupazione; il terrorismo, anziché declinare, appare come non mai una costante che può anzi trovare nuovi terreni di sviluppo, le istituzioni (come stato e come partiti) si avvitano tra impotenza e arroganza, la vicenda internazionale imporrà scelte sempre più radicali.
Il tema di una alternativa acquista così ogni giorno maggiore urgenza e maggiore radicalità. Ma date le tendenze del Psi, appare sempre più improbabile che tale alternativa cresca, e possa alla fine imporsi, anzitutto e soprattutto la tenace e paziente ricostruzione dell’intesa tra i due maggiori partiti storici della sinistra. Almeno per una fase non breve una linea di alternativa non può che crescere principalmente sulla forza del Partito comunista, dipende dalla sua capacità di costruirsi nuove alleanze attraverso un sommovimento profondo nel tessuto delle forze politiche esistenti, dalla sua capacità di mobilitare nuovi strati sociali e anzi il suo stesso corpo militante (il che va molto al di là di un buon risultato elettorale).
Ora, bastano le forze, la cultura, l’immagine, dell’attuale Partito comunista italiano, per quanto grandi e vitali tuttora rimangano, a garantire tutto questo, malgrado l’usura indubbia venuta dall’esperienza dell’unità nazionale, e proprio nel momento in cui precipita la crisi di un campo al quale la storia dei partiti comunisti è legata e quindi si creano loro reali difficoltà nel rapporto esterno, e anche nell’unità e nella convinzione del loro corpo militante?
Certo, e per fortuna, il Pci non è ridotto o riducibile ai termini in cui lo era il Partito socialista francese negli anni ’60 (ha una grande forza militante, un seguito elettorale imponente, un segretario che vuole tenersi, una capacità di ricerca e dibattito), ma proprio perché l’obiettivo che si propone, e gli si impone, è tanto più grande e difficile, anche per lui nasce, in senso stretto, un problema di rilancio e rifondazione. Il problema cioè di presentarsi al paese, senza rinnegare il passato e anzi per inverarlo, come una forza nuova. Nuova come e più di quanto lo fu, nel ’44, il Partito nuovo di Togliatti, o quello di Lenin dopo la rivoluzione di febbraio.
Il tema della rifondazione della sinistra, a partire dall’area comunista, delle forze che “credono a una terza via” – quel tema che abbiamo posto al centro del nostro recente congresso – diventa così, nel “dopo Polonia”, assolutamente evidente, e diventa in senso proprio un obiettivo di battaglia politica. Quando dico obiettivo politico centrale, non indico, sia ben chiaro, una panacea, una formula risolutrice: anche se esso fosse raggiunto ci troveremmo do fronte, in tutta la loro difficoltà teorica e pratica, i problemi della rivoluzione italiana. Ma raggiungerlo, e in tempi definiti, costituisce comunque la condizione indispensabile per una alternativa.
Le due scadenze di verifica più prossime ed evidenti della sua realizzazione saranno, in questo senso, il prossimo congresso del Pci e le elezioni politiche.
Si presenterà quel congresso – per scelta interna e pressione interna – come occasione ed elemento di una generale fase costituente? Saprà, in quelle elezioni, la sinistra di opposizione andar oltre una linea di resistenza e di propaganda, per farne invece un grande strumento di riapertura del dialogo col paese sui grandi temi del suo avvenire?
Ciò non dipende solo dal partito comunista che di questa sinistra è la forza più grande, di questa rifondazione il luogo centrale. Dipende anche, e per certi aspetti in primo luogo, dalla capacità delle forze politiche, sociali, culturali che si muovono fuori di esso di assumere questo obiettivo in modo risoluto, e di battersi per la sua realizzazione con una lotta ideale e anche con un impegno concreto nei movimenti di massa (prima che ogni altro quello per la pace e quello per l’occupazione).
Il “dopo Polonia” è un momento della verità: l’idea della “terza via” può decollare o dimostrare la propria inconsistenza.

di Lucio Magri