Fare una rivista politica e per di più una rivista plurale', con molte teste per fortuna abituate a pensare in proprio, è appassionante ma molto difficile, sempre. In particolare quando il tempo per discutere, elaborare una posizione comune, o ordinare un confronto tra posizioni diverse è solo di pochi giorni: perché è accaduto qualche cosa di straordinario di cui non si può tacere, ma quel che è accaduto suscita emozioni e apre interrogativi così pressanti in tantissime persone che chiedono subito un'analisi veritiera che le aiuti a capire e proposte sul che fare. Questo è oggi il nostro caso. Cercherò dunque di anticipare a titolo personale qualcosa, di cui non sono certo, ma senza la preoccupazione di renderlo preventivamente accettabile e accettato, lasciando ogni opportunità di essere contraddetto, e a me stesso la libertà di correggermi. 1.La sconfitta che abbiamo tutti subìto è grande, e non è di breve periodo. Come ha già scritto Pintor, l'errore più grave che si potrebbe commettere, e in parte si sta già commettendo, è di minimizzarne la portata. A conclusione della cosiddetta transizione italiana, e a cinque anni da una vittoria alla quale tutta la sinistra aveva contribuito, l'Italia si trova oggi di nuovo governata da Berlusconi con i suoi compari. Il
di nuovo’ è in realtà un eufemismo, ecco la prima verità scomoda da aver chiara.
Perché non si tratta affatto di una semplice riedizione del 1994. Per una serie di ragioni che forse appaiono ovvie ma non è inutile sottolineare. Anzitutto Berlusconi oggi dispone di una maggioranza ampia in entrambe le Camere. Anche se la differenza nei voti dei due schieramenti è più ridotta del passato. Questo è il prodotto – come, non sempre ma spesso, accade – di un sistema elettorale maggioritario che non siamo riusciti a bloccare e anzi una buona parte della sinistra ha voluto. Ma è anche l’espressione di una rilevante novità politica. Come si spiega infatti che, con una maggioranza in voti tra l’uno e il due per cento, il centro-destra abbia ottenuto 120 deputati e circa 50 senatori in più dell’Ulivo? Si spiega da un lato e soprattutto col fatto che, questa volta, il centro-destra ha allargato e radicato la sua presenza su tutto il territorio nazionale, vincendo perciò di misura in gran parte dei cosiddetti `collegi marginali’; e dall’altro lato col fatto che una maggiore fedeltà dei suoi elettori, e la truffa delle liste civetta, ha permesso al centro-destra di conquistare una più forte maggioranza nel settore proporzionale.
Inoltre, questa larga maggioranza parlamentare ha ormai non solo un leader incontestato, ma è dominata da un partito, Forza Italia, che non deve più temere la secessione della Lega, ridotta al lumicino, né di altre compagini minori crollate sotto la soglia del 4%. Si sta così creando una supremazia di un partito che ha dimensione e radicamento territoriale simili a quelli della vecchia Democrazia cristiana, senza averne né la vocazione ideologicamente e socialmente mediatrice, né l’attitudine moderata: una forza che ha assorbito invece organicamente culture, umori, interessi della destra governando liberismo selvaggio e populismo retrivo, e può evolvere nella direzione di un classico partito schiettamente conservatore o nella direzione di una forza più nettamente reazionaria in rapporto all’evoluzione che avverrà negli assetti economici e sociali, nazionali e internazionali.
Infine, ma non per ultimo, una maggioranza politica così estesa e relativamente solida è espressione, e soprattutto funzionerà come premessa, di un blocco più esteso e non meno importante sul piano del potere reale: non a caso la Confindustria, la Chiesa, altri centri decisivi (l’informazione, la burocrazia), che già prima delle elezioni non nascondevano la loro propensione, oggi esplicitano un sostegno e chiedono contropartite. Tutto ciò non si esprimerà solo in prevedibili operazioni di aggressiva occupazione delle sedi istituzionali, ma soprattutto nella tessitura di una convergenza extraistituzionale, che può trovare una consonanza con forze internazionali come ad esempio la presidenza americana (anch’essa debole nella legittimazione elettorale ma non per questo timida o incerta nel marcare una sua nuova fisionomia).
Per tutte queste ragioni ed altre ancora – ad esempio, il fatto che Berlusconi ha vinto senza moderare per niente la sua aggressività e pur commettendo colossali errori in campagna elettorale – occorre sapere, e avere il coraggio di dire, che questa volta egli ha un consenso solido, consapevole, che non è il caso di sperare che si scaverà presto e da solo la fossa, che non basta attendere con pazienza che il cadavere del nemico ci passi davanti.
Occorre aggiungere però, senza alcuna intenzione consolatoria, un paio di considerazioni di fatto, per non cadere nell’errore di credere che una battaglia di opposizione, o il lavoro di costruzione di un’alternativa, siano destinati, per lungo tempo ormai, a non avere spazio né speranza. Anzitutto è incontrovertibile, guardando ai numeri, che la nuova maggioranza non viene da uno sfondamento elettorale: il centro-destra che, nel suo insieme, ha oscillato negli ultimi sette anni tra il 54% e il 51% dei voti, nelle elezioni del 13 maggio ha ottenuto il 49% nel proporzionale e il 44% nell’uninominale. Ha perso cioè, su un numero uguale di votanti, quasi due milioni di voti. Altrettanto importante è il fatto – inatteso anche per noi, che pure ne avvertivamo il rischio e abbiamo contribuito a combatterlo – che il risultato non è stato conseguito per un maggiore astensionismo, ma al contrario, con una improvvisa ripresa di partecipazione (dal 73 all’82%).
Non grazie a una miracolosa ritrovata fiducia nei partiti del centro-sinistra, (basta vedere il loro misero 35% nel proporzionale), ma certo per una forte volontà di impedire o di limitare il prevedebile successo della destra, tre milioni di elettori, in particolare di sinistra, che alle europee o alle regionali si erano astenuti, sono tornati a votare. Si confronti il voto proporzionale e quello maggioritario alla Camera: una differenza sorprendente di 8 punti nelle percentuali ottenute dall’Ulivo (da 35 a 43%) senza la quale la sconfitta sarebbe diventata un disastro. Questo dato dimostra che, malgrado divisioni e delusioni rispetto al governo di centro-sinistra, il popolo di sinistra (e l’opinione democratica) non ha affatto considerato indifferente chi avrebbe vinto, e ha saputo anche unirsi più dei suoi vertici. Otto punti di differenza dimostrano che quando si è loro data la possibilità con il doppio voto di esprimere la propria critica e la propria identità, grandissima parte degli elettori di Rifondazione ha votato anche il candidato dell’Ulivo per contrastare Berlusconi. Per la stessa ragione larga parte delle altre forze fuori dalle coalizioni, che spesso non avevano candidati propri nei collegi, hanno votato l’Ulivo nel maggioritario. E una parte degli elettori che non si riconoscevano nei partiti in generale, si sono astenuti nel proporzionale (dove le schede bianche sono aumentate) e al maggioritario hanno votato Ulivo.
Seconda constatazione di fatto: l’intesa, sempre meno tacita, tra il centro-destra e i poteri forti' non è senza prezzo. Basta vedere, già in questi giorni, ciò che chiedono Confindustria e vertici vaticani per capire che fin dall'inizio il nuovo governo dovrà tenerne conto. I suoi primi
cento giorni’ non saranno affatto indolori, terreni e occasioni di scontro politico si offriranno da subito, non solo rispetto a forze radicali e minoritarie, ma rispetto a un vasto fronte politico e sindacale: scuola, contratti e assetto contrattuale, politica fiscale, carattere del federalismo, ordinamento giudiziario, e via dicendo. L’esito straordinario dello sciopero dei metalmeccanici già lo dimostra.
Ma non sarà facile sostenerli, questi scontri, concluderli bene, dare loro continuità, perché ormai sono intervenuti tali mutamenti nel sistema politico e in quello sociale da rendere ovunque la funzione dell’opposizione più ardua e meno incidente: il ruolo e i poteri reali del Parlamento sono ridotti, il ceto politico è disabituato a stare tra la gente, i partiti sono in prevalenza comitati elettorali, dopo le elezioni e senza avere ruoli di governo si eclissano, la stampa di opposizione è debole e ghettizzata, i sindacati sono divisi e lo strumento dello sciopero è meno abituale e meno incisivo. Restano le manifestazioni di piazza, a volte per fortuna grandi, ma fluttuanti, e i collegamenti `a rete’ che producono nuova coscienza diffusa, ma solo in minoranze. Ad esempio si può dire che negli Stati Uniti la vittoria usurpata di Bush e le sue aggressive scelte da presidente, stiano suscitando nel Congresso e nel paese – dove pure non sono condivise – un’opposizione corposa e visibile?
2.Questo ci porta alla seconda, e meno prevista, novità emersa nel risultato del 13 maggio. Quella intervenuta all’interno del centro-sinistra.
Si è venuta anzitutto aggregando una componente di centro nella coalizione: la Margherita, con il 14,5% dei voti; in cui probabilmente confluirà buona parte del fallito Girasole. Il risultato in sé non è straordinario: perché supera di poco la somma dei vari partiti e partitini che vi hanno contribuito, e perché è stato ottenuto anche grazie al fatto di aver avuto in questa occasione, come leader, il candidato di tutta la coalizione, in una competizione elettorale sempre più personalizzata in entrambi gli schieramenti. Ma è comunque un risultato notevole, perché questa volta le singole componenti della improvvisata coalizione non hanno alcuna possibilità di rompere l’alleanza senza andare allo sbando e Berlusconi non ha nessun interesse a sollecitare trasmigrazioni parlamentari di eventuali scontenti. Un centro del centro-sinistra insomma ormai c’è, ha carte da giocare, tempo per giocarle, una stampa amica che lo aiuterà. Già questo misura, e ulteriormente stimola, uno spostamento di equilibri e di cultura all’interno della ex-maggioranza, a favore di una tendenza moderata e neoliberale che per anni i Ds hanno aiutato nell’illusione di poter così sottrarre voti al centro-destra ed è servita quasi solo a cederne dei suoi.
Italia. Camera: parte proporzionale
1996 2001 2001/96
Voti % Voti % Voti %
Totale elettori 48.744.846 49.358.947 614.101
Votanti 40.401.474 82,80 39.998.716 81,03 -402.758 -1,77
Bianche e nulle 2.891.137 7,16 2.900.373 7,26 9.236 0,10
Voti validi 37.494.965 92,84 37.098.343 92,74 396.622 -0,10
An 5.870.491 15,66 4.459.397 12,02 -1.411.094 -3,64
Forza Italia 7.712.149 20,57 10.923.146 29,44 3.210.997 8,88
Ccd-Cdu 2.189.563 5,84 1.193.643 3,22 -995.920 -2,62
Ccd
Lega Nord 3.776.354 10,07 1.461.854 3,94 -2.314.500 -6,13
Pannella Sgarbi/Nuovo Psi 702.988 1,87 352.853 0,95 -350.135 -0,94
Totale Polo 20.251.545 54,01 18.390.893 49,57 -1.860.652 -4,44
Pds 7.894.118 21,05 6.147.624 16,57 -1.746.494 -4,48
Popolari/Margherita 2.554.072 6,81 5.386.950 14,52 2.832.878 7,71
Lista Dini 1.627.380 4,34 -1.627.380 -4,34
Verdi/Girasole 938.665 2,50 804.488 2,17 -134.177 -0,33
Sdi
Comunisti italiani 619.912 1,67 619.912 1,67
La Rete
Democratici
Altri 38.002 0,10 200.056 0,54
Totale Ulivo 13.052.237 34,81 13.159.030 35,47 106.793 0,66
PRC 3.213.748 8,57 1.868.113 5,04 -1.345.635 -3,54
Ulivo+PRC 16.265.985 43,38 15.027.143 40,51 -1.238.842 -2,88
Italia dei valori 1.443.271 3,89 1.443.271 3,89
Democrazia europea 887.037 2,39 887.037 2,39
Bonino 831.199 2,24 831.199 2,24
Altre 966.868 2,58 518.800 1,40 -448.068 -1,18
Totale altre 966.868 2,58 3.680.307 9,92 2.713.439 7,34
Il fatto ben più clamoroso e importante è però un altro. Il 13 maggio le forze che venivano da una tradizione di sinistra, che tuttora in modi e per ragioni diverse si considerano e ancor di più sono considerate tali dai propri elettori, sono uscite duramente ridimensionate. Non nella stessa misura, tanto meno per le stesse ragioni, né con le stesse conseguenze, ma il risultato è comunque pesante per entrambe.
Per i Ds, anzitutto. Avevano la forza maggiore (il primo partito del paese); avevano le maggiori ambizioni (diventare in breve tempo un grande partito socialdemocratico europeo, cioè del 30-40%); aspiravano a conservare una indiscussa rappresentanza delle classi lavoratrici e a ottenere se non il sostegno la fiducia dell’élite imprenditoriale e nelle relazioni internazionali; mantenevano un legame forte con la maggiore confederazione sindacale ed hanno per un certo tempo assunto in prima persona il governo nazionale e più stabilmente la guida di moltissimi Comuni e di grandi Regioni. Il risveglio ora è drammatico. Hanno perduto prima il governo, alla fine anche i voti: dal ’96 al 2001, un milione e settecentomila (il 5%, un quarto del loro elettorato). Sono ad un minimo storico, perfino inferiore alle europee e alle regionali. È rilevante anche il dove hanno perso. Questa volta il Nord ha tenuto (c’era ormai poco da perdere); ma c’è stato un vero crollo nelle regioni rosse (l’amata Emilia in particolare: -7%), e nel Sud (in particolare in Puglia, Campania, Sicilia), diventando in zone nevralgiche non solo il secondo ma il terzo o quarto partito.
Per Rifondazione il discorso deve essere diverso. Combatteva – per responsabilità sua o degli altri poco importa – in un totale isolamento, con una legge elettorale che di per sé punisce le forze non coalizzate, disponeva di mezzi di comunicazione estremamente limitati in una competizione nella quale tutto si è giocato sui media e sulle risorse finanziarie. Aveva subito – anche qui poco importa stabilire per quale concorso di colpa – una scissione pesante e recente che direttamente le sottraeva un quarto del suo elettorato. Combatteva, dunque, letteralmente, per sopravvivere. Ha raccolto il 5% dei voti, qualcosa di più rispetto alle elezioni più recenti, e resta in campo. Rifondazione perciò può tirare il fiato e considerare premiato lo sforzo.
Riepilogo nazionale parte uninominale
Seggi, voti, percentuali
Coalizioni/Partiti Seggi Voti %
proporzionale uninominale
Ulivo 58 184 16.652.152 44,5
Ulivo+Ulivo-SVP 8 (a) 1,0
Rifondazione 11
Casa delle Libertà 86 282 17.010.788 45,5
(a) I voti raccolti nell’uninominale dalle liste della SVP, e relative percentuali, sono compresi nell’Ulivo
Ma in termini di un più lungo periodo, tutto ciò è ben lontano dal nascondere un dato complessivamente molto pesante. Dal 1996 al 2001, Rifondazione ha perduto un milione e mezzo di voti, (solo 600.000 assorbiti dai Comunisti italiani), cioè circa il 40% dei propri elettori. Soprattutto, questa volta, essa non può attribuirne la colpa alla crescita dell’astensione, Si supponeva, anzi si sapeva per l’analisi dei flussi, che una parte notevole delle astensioni aveva penalizzato proprio Rifondazione (ben oltre la metà delle perdite alle europee e alle regionali era finita lì, aveva scritto «Liberazione»): perché quando questi elettori sono tornati a votare non li ha intercettati? E perché non ha recuperato una parte delle perdite nuove dei Ds? E i giovani? Eppure, in questi anni, fatti clamorosi – successivi al ’98 – avrebbero dovuto alimentare e premiare una forza di opposizione che si era generosamente spesa per contrastarli: la guerra insensata, l’erosione del salario e dei diritti, la disoccupazione giovanile, una politica scolastica criticata fortemente dagli insegnanti, le forme nuove e più avvertite del degrado ambientale, i guasti connessi al tipo attuale di globalizzazione e i movimenti che cominciano a crescere in tutto il mondo su questi temi. E infatti giustamente Rifondazione ambiva non solo a sopravvivere ma a conquistare gradualmente un’egemonia nella sinistra, a costruire un `partito comunista di massa’. Perché allora si trova con forze minori che alle origini?
Certo, non sempre una curva elettorale negativa misura la forza reale e definisce il futuro. A volte una perdita di voti è congiunturale e contraddice una crescita di organizzazione, di radicamento sociale, di elaborazione culturale, che già prepara successi futuri. Ciò potrebbe valere per Rifondazione come per i Ds, così come avvenne al Pci nel caso dell’insuccesso elettorale del 1972, smentito dopo soli tre anni dalla grande avanzata del ’75 e del ’76. Francamente non è purtroppo questo il caso. Mi limito a elencare disordinatamente qualche evidente elemento di fatto per sostenere che, nel caso attuale, la crisi elettorale almeno in parte corrisponde a debolezze politiche, organizzative, di insediamento sociale, di quadri, di identità, di iniziativa. Gravi e permanenti.
Qualsiasi militante, o dirigente nazionale dei Ds, appartenente ad una o ad un’altra delle sue componenti, con cui ho avuto occasione di parlare prima, durante, o alla fine della campagna elettorale ripeteva con sincerità ed amarezza le stesse constatazioni: il partito quasi non c’è più, le sezioni sono quasi chiuse, il rapporto con le gente è episodico, nella campagna elettorale si è avuta una mobilitazione solo alla fine, è stata promossa dai candidati, e solo per il collegio uninominale. La campagna elettorale si è dunque svolta quasi tutta alla televisione, con prestazioni buone, decenti o cattive, ma in generale prive di connotazioni politiche e ideali forti; la sinistra ha segnato dei punti effettivi solo nell’attacco vigoroso e tardivo contro Berlusconi. Anche esso delegato soprattutto al generoso impegno di qualche giornalista (Montanelli, Scalfari), famosi anchor-men (Biagi, Santoro), formidabili satirici (Luttazzi, Benigni, i Guzzanti). Il voto non ha inoltre corrisposto a reali situazioni di lotta né ha riflesso un rapporto con esperienze reali: si è votato a Brescia all’incirca come a Bergamo e a Varese, nella provincia inerte della Campania e della Basilicata come nelle zone di forte ripresa operaia come Cassino, Melfi, Pomigliano.
La sinistra ha preso percentuali inferiori tra i giovani che tra gli adulti. L’astensione è diminuita meno, e la sinistra è andata relativamente peggio, nelle periferie popolari e nei quartieri degradati che non nei quartieri medio-alti. E in generale questo vale, se pure un misura diversa, per entrambi i partiti. Altra constatazione: il conflitto sociale emerge di nuovo e in modo interessante, e la Cgil mostra maggiore capacità di iniziativa, ma ciò non cancella una rottura profonda dell’unità sindacale, ed anche una crisi non piccola del sindacato nel suo insieme. Il movimento ambientalista è stato trascinato nella grottesca vicenda del Girasole e del cannibalismo delle candidature verdi, o si è inserito nell’esperimento della Margherita. Ovunque io abbia avuto occasione di andare in questi mesi gli stessi compagni di Rifondazione, non solo i loro critici, dicevano di non avere forze e quadri sufficienti per trovare un rapporto con vaste aree di opinione o sviluppare iniziative incisive: anche essi dovevano sperare soprattutto nei pur limitati spazi televisivi.
La stampa di sinistra era già ridotta a poco e lì resta: «l’Unità», dopo essere crollata nelle vendite, è rimasta chiusa proprio nell’anno cruciale, «il manifesto» e «Liberazione», non a caso, non hanno potuto né saputo occupare il mercato che restava aperto (se non marginalmente e temporaneamente). La ripresa di una cultura critica che è evidente e vitale in altri paesi europei e negli Stati Uniti (chiunque sia al governo), nelle università, nelle case editrici, anche in qualche grande giornale, in Italia non si è avuta che in minima parte. Il `popolo di Seattle’ c’è anche qui, ma finora non con la forza e la capacità di comunicare mostrata ad esempio in Francia (da Bovet ad Attac, a «Le monde diplomatique»), o negli Stati Uniti (con una grande frammentazione ma coinvolgendo nuovi settori sindacali, un ambientalismo diffuso e radicale, un femminismo combattivo). All’interno dei partiti di sinistra continuano a riprodursi diversità di culture, frammentazione di gruppi dirigenti, competizioni per le candidature, surrogate dal ruolo del leader, più o meno capace che esso sia. Insomma la crisi non è solo di voti.
Sono affermazioni infondate, troppo unilaterali e pessimistiche, di chi non ha cognizioni sufficienti, o abusa dell’amaro privilegio della libertà di critica per il fatto di essere ai margini della mischia, e dovrebbe per primo render conto del proprio isolamento? Può darsi, e sarei contento fosse così, ma val la pena di discuterne. Di guardare con franchezza ai numeri ma anche a ciò che sta dietro e intorno a loro.
3.Se questo è il quadro che emerge da un’analisi realistica e da un’interpretazione non consolatoria del voto del 13 maggio, è facile capire due cose, apparentemente contraddittorie, in realtà complementari. Da un lato ci attende un lungo lavoro di elaborazione teorica, di rinnovamento culturale, di ridefinizione programmatica, di ricostruzione organizzativa, di formazione di quadri, di trasformazione del senso comune di massa perché è a questo livello profondo, e con radici lontane, `epocali’, come oggi si dice, che è maturata la crisi della sinistra e quindi la vittoria della nuova destra, nella società prima che nelle urne. Dall’altro lato, però, questo lavoro non comincerà neppure, non troverà energie intellettuali e morali adeguate per procedere, prenderà strade illusorie e sbagliate se non si riesce a dire qualcosa di semplice e forte sul che fare politico: ora, quando è viva un’emozione di massa, è in atto una delegittimazione dei gruppi dirigenti, e prima che tutto regredisca nella rassegnazione o si esaurisca in temporanee fiammate di protesta.
Sul primo punto non è possibile in questa sede e in questo momento soffermarsi: salvo per dire che la riflessione non può limitarsi a ripetere e approfondire una critica dell’ordine di cose esistenti, né a recuperare verità rozzamente e ingiustamente liquidate (un modo di vedere la realtà molto diffuso, univocamente catastrofista che poi si rovescia in un’altrettanto superficiale fiducia nella vecchia talpa' che sta scavando e alla fine riemergerà); e che l'attenzione deve inoltre concentrarsi, senza semplificazioni, sulla nuova fase che proprio oggi si viene aprendo nelle vicende e negli assetti della società, dell'economia, del potere, in tutto il mondo (novità sulle quali il dibattito politico e culturale in Italia è ancora più asfittico e reticente che negli altri paesi). Alcune cose nette invece si possono e si devono dire subito a proposito del che fare, almeno per provocare un dibattito. La prima, elementare ma non perciò meno importante, riguarda quello che non si deve fare, e invece già si sta facendo. Mi riferisco alla perversa
ricerca dell’assassino che può anche durare poco, ma produce un veleno, gioca su elementi passionali e verità apparenti, scavando fossati a lungo insuperabili.
Un’operazione del genere è in atto, specificamente, per scelta di una parte del gruppo dirigente dell’Ulivo e ancor più dei suoi corifei (anche se Rifondazione, a parer mio, dovrebbe respingerla non con meno fermezza ma con argomenti e toni più sereni ed efficaci, come è possibile, anzi facile). Dire che Berlusconi ha vinto per colpa di Bertinotti è una falsità.
Se ci si riferisce alla rottura politica del `98, essa quanto meno ha avuto molti padri, e non si sarebbe potuto evitarla comunque pochi mesi dopo, di fronte alla guerra (salvo che Prodi e D’Alema non ci dicano oggi che, se l’originaria maggioranza fosse rimasta in piedi, non avrebbero fatto partire da Aviano i bombardieri).
Se ci si riferisce invece alle recenti scelte elettorali allora bisogna dire per intero la verità.
Il primo lato della verità, il più importante e il più taciuto, è che non esistendo le condizioni di un pieno accordo di governo Bertinotti, anche contrastando una propensione diffusa nel suo partito, preliminarmente e senza chiedere contropartite ha deciso di non presentare candidati in tutti i 475 collegi maggioritari alla camera, per consentire ai propri elettori di votare non solo Rifondazione nel proporzionale, ma anche di sostenere candidati dell’Ulivo nel maggioritario a contrastare la destra. Era una forte scelta unitaria, anche se poi non è stata adeguatamente valorizzata e sostenuta. Comunque quella scelta unitaria è stata compresa e rispettata da milioni di elettori.
Il PCI e i suoi eredi
Le elezioni alla Camera dal 1963 al 2001
Anni Voti % Voti validi % elettorato Variazione % base elettorale Seggi % Seggi
1963 7.768.228 25,3 22,7 15,9 166 26,3
1968 8.557.404 26,9 24,1 10,1 177 28,1
1972 9.072.454 27,1 24,5 6,0 179 28,4
1976 12.622.728 34,4 31,2 39,1 227 36,0
1979 11.139.231 30,4 26,4 -11,8 201 31,9
1983 11.032.318 29,9 25,0 1,0 198 31,4
1987 (a) 10.254.591 26,6 22,4 -7,0 177 28,1
1992
PDS
RC 6.317.962
2.201.428 16,1
5,6 13,3
4,6 -16,9 (b) 107
35 17,0
5,6
1994
PDS (b)
RC (b) 7.855.610
2.334.029 20,4
6,0 16,3
4,8 +24,3
+6,0 109 (c)(37p+72m)
39 (12p+27m) 17,3
6,2
1996
PDS (b)
RC (b) 7.897.044
3.215.960 21,1
8,6 16,2
6,6 +0,5
+37,8 150 (26p+124m)
35 (20p+15m) 23,8
5,6
2001
DS
RC 6.147.624
1.868.113 16,6
5.0 12,4
3,8 -22,1
41,9 149
11 (p) 1,7
(a) Alle elezioni per il Parlamento europeo del 1989, anno della Bolognina, il PCI era oltre il 29%.
(b) La variazione di base elettorale nel 1992 si riferisce all’intero elettorato ex comunista (PDS+RC).
(c) I voti sono quelli conseguiti dalle liste nel proporzionale; il numero totale dei seggi è disaggregato in quelli vinti nel proporzionale (p) e quelli ottenuti nel maggioritario (m).
Fonti: fino al 1987: Istat; 1992: «Quaderni dell’Osservatorio elettorale», 28,1992; 1994: «Rivista italiana di scienza politica», 3, 1994; 1996: ministero dell’Interno; 2001: nostra elaborazione su dati del ministero dell’Interno.
Più complicata è la questione del Senato, dove in realtà il risultato avrebbe potuto essere diverso senza una concorrenza a perdere. Ma anche qui stiamo ai fatti. Per il Senato la legge non offriva due schede e due voti distinti. Si poteva chiedere semplicemente a Rifondazione di scomparire, e convincere i suoi elettori? Esistevano invece molte strade per fare anche per il Senato ciò che si è fatto per la Camera. La prima strada, quella maestra, era di fare una nuova legge elettorale, più rispettosa del proporzionale, come era possibile subito dopo il risultato del referendum del 2000. Molte condizioni esistevano: c’era una maggioranza sufficiente, e si poteva inchiodare Berlusconi al progetto di legge che lui stesso aveva già presentato. Non lo si è fatto, nei tempi e con la convinzione necessari; è naturale che così fosse perché i Democratici, i Ds, e ormai anche D’Alema si erano impegnati proprio in una direzione contraria, sostenendo il referendum per l’abolizione secca della quota proporzionale.
Restava tuttavia ancora una soluzione limitata ma efficace. Non era quella, indecorosa, di offrire sottobanco a Rifondazione un pugno di seggi, per candidati camuffati sotto il simbolo dell’Ulivo. Era invece quella di una desistenza asimmetrica': l'Ulivo rinunciava a presentare il proprio candidato in alcuni collegi che già sapeva perdenti, in Regioni dove un concorso anche parziale dei suoi voti avrebbe permesso a Rifondazione di raggiungere il quorum e ottenere un risultato; Rifondazione rinunciava a presentarsi in regioni nelle quali era sicura di disperdere i voti, o quanto meno in una trentina di collegi marginali nei quali con il suo apporto l'Ulivo avrebbe vinto. Bertinotti era disponibile a un tale accordo, e lo ha detto, sia pure un po' tardi e non con forza. Su cosa si è arenato questo accordo che ora, in base ai numeri, possiamo vedere sarebbe stato rispettato e vincente? Si è arenato sull'indecente ostacolo delle liste civetta. Anche questo ostacolo superabilissimo. Le liste civetta non erano infatti solo una truffa legalizzata, né solo un pericolo per Rifondazione, erano e sono state un danno per l'Ulivo, perché Berlusconi, prevedibile vincitore in molti collegi, sarebbe stato penalizzato da una applicazione corretta dello scorporo. Era semplicemente necessario un emendamento applicativo della legge elettorale per chiarirne il testo, e impedirne l'aggiramento. Occorreva però la volontà di farlo e il minimo di intelligenza per farlo in tempo. A Rifondazione si può rimproverare di non aver posto la questione per tempo e alla luce del sole, ma la principale responsabilità, tecnica e politica è dell'Ulivo che in quei mesi ha dedicato molte più forze a trattare le candidature di quanto non ne impegnasse a costruire le condizioni politiche di uno schieramento più ampio. Ho dato tanto spazio ad una questione che pare fin troppo
politichese’, perché non solo essa ha avuto un rilievo sul risultato (un po’ come la disputa sulla Florida), ma perché illumina il metodo con il quale dovremmo, e dovremo, invece discutere del che fare.
Già ora infatti appare forte il rischio che un risultato elettorale così grave e così chiaro, sia seguito da una riflessione, tra e dentro i partiti, assolutamente reticente, dominata dalla rimozione.
In entrambi ci sono già i primi accenni di una discussione sul voto e sul dopo voto. Nel caso dei Ds anche con scelte che apriranno conflitti: si è già deciso un congresso straordinario a tempi brevi, si dovrà eleggere un nuovo segretario. Nel complesso e nella sostanza politica, però, l’orientamento prevalente mi è parso finora caratterizzato dalla parola d’ordine infausta e sempre ricorrente nella tradizione dei partiti comunisti (a parte la Nep e il VII Congresso dell’Internazionale) e in quella cattolica: «rinnovamento nella continuità». Un ossimoro che, in circostanze diverse, andava letto in due modi diversi: dobbiamo compiere una svolta profonda e finora non prevista, però senza autocritiche delegittimanti e senza dichiararla troppo apertamente', oppure:
dobbiamo andare più avanti e con una innovazione che avevamo già deciso ma è restata a metà’. Nel caso attuale la lettura più fedele sembra essere la seconda.
Già nelle prime settimane i discorsi e le interviste di D’Alema, quelle di Amato, l’esegesi fatta da Bosetti che dirigerà la loro nuova rivista, l’offensiva degli ulivisti e l’articolo di commento alle elezioni di Massimo Cacciari su «la Repubblica», convergono in questa direzione. Non si ripropone formalmente il noto contrasto tra Partito democratico o Partito socialista europeo, ma quest’ultimo, nella sostanza, sbiadisce nell’altro: il nuovo partito della sinistra' dovrebbe secondo loro assumere più che mai l'identità liberal-democratica, il suo destino e la sua rappresentanza sociale via via si intrecciano con la Margherita, anche il processo riorganizzativo e la formazione dei gruppi dirigenti hanno lo stesso sbocco già segnato. Nel nuovo partito sarà legittima, se ci sarà, una dissidenza di sinistra, riconosciuta ma non influente. Non si escludono, se e quando possibile, intese elettorali anche con forze più dichiaratamente alternative, ma non tali da offuscare una strategia. Una Epinay, giunge a dire Amato: ma una Epinay rivolta verso il centro, e che esclude in partenza e considera irrilevanti, se non inquinanti, tutto il mondo e le culture della sinistra critica e alternativa. È del tutto inutile per noi, che l'abbiamo tante volte detto, e in tutte le salse, ripetere che su questa strada non si è andati finora lontano e non ci si andrà ora, col 16% e avendo perso il governo. Non a caso le speranze si appuntano sul fatto che Berlusconi stesso deluderà elettori e poteri forti che si sono sbagliati a votarlo, e nel frattempo si afferma l'opportunità che in una
democrazia moderna’ l’opposizione sia coinvolta di fatto nel governo, e il governo tenga conto del peso che l’opposizione mantiene in molte regioni e istituzioni. Alternanza più semiconsociativismo. Resta da vedere se, quando e quanto una tale scelta troverà forze che attivamente la rifiutino, e riescano ad ottenere in qualche misura una correzione strategica.
Il discorso su Rifondazione deve essere meno precipitoso e tranciante: perché il dibattito post-elettorale è solo avviato, risente dell’attacco violento che essa sta subendo, e perché anche chi, come me, non condivide diverse sue posizioni, non può prescindere dal fatto di sentirsi partecipe di quel mondo sociale e culturale che chiamiamo sinistra alternativa.
Non posso e non devo però tacere l’impressione che anche da quella parte per ora sembra prevalere, il rinnovamento nella continuità'. Poca disponibilità alla riflessione autocritica; “la svolta giusta l'abbiamo già fatta, si tratta di portarla più avanti e presto darà grandi frutti; la rappresentanza politica della sinistra alternativa c'è già, si tratta di rafforzarla, e si rafforzerà con l'apporto dei
nuovi movimenti’ in cammino”.
Ciò che non mi convince, o non mi è ben chiaro e vorrei discutere, di questo discorso, è un punto molto semplice. A quale svolta si allude? A uno sforzo compiuto negli ultimi anni per portare più a fondo la rottura di un piatto continuismo non solo con la storia del Comintern ma anche con un eccesso di parlamentarismo, di gradualismo, di moderatismo programmatico dello stesso Pci? Non potrei dissentire, perché da molti anni con i compagni del «manifesto«, la considero necessaria e ho provato a contribuirvi. O invece si allude a una rottura molto più radicale con quella stessa tradizione, che ci porti fino a negare il carattere processuale del superamento del capitalismo, a ridurre a ben poco il ruolo che vi deve specificamente avere il livello della politica e del potere pubblico, a negare il tema degli obiettivi intermedi e delle casematte, e quindi delle alleanze e dei compromessi, a separare sostegno ai movimenti da ambizione di governo, riforme da rivoluzione, a rivolgersi solo a ciò che si muove alla nostra sinistra, e non anche a forze più o meno attive e organizzate ma vaste, che si trovano, per cultura e ruolo sociale, a mezza strada tra sinistra moderata e sinistra radicale? Avviare una effettiva rifondazione di una forza comunista, o correre il rischio di una riedizione della nuova sinistra' postsessantottina alla quale ho partecipato e di cui conservo l'orgoglio, ma della quale perciò conosco i limiti e le derive? Non sono interrogativi retorici ai quali dò già una risposta: perché negli ultimi anni Rifondazione mi era invece sembrata avviata su una strada nuova e inedita. Ha contribuito utilmente e senza pentirsene a una coalizione di governo, l'ha rotta quando vi ha visto prevalere una strategia e un programma inaccettabili, ma senza negarla sul piano dei princìpi; ha guardato con interesse, malgrado i suoi limiti evidenti, all'esperienza francese. Ha dichiarato, parlando di sé, di non bastare, aprendosi perciò su vari fronti, tra i quali quello che modestamente la nostra rivista rappresentava. Quello che più mi inquieta è allora l'affermazione che
l’atto rifondativo fecondo è la rottura del 98'. Si può infatti giudicare diversamente quella rottura (personalmente la consideravo inevitabile, pur criticandone tempi e modi). Ma ricordo che Gramsci, pur avendo alle spalle una rivoluzione vittoriosa, non evitò di dire che la rottura del Psi (il caravanserraglio) era al tempo stesso una necessità e una sciagura da recuperare. E, senza scomodare Gramsci, ricordo che Bertinotti, non solo Cossutta, disse: «Se la maggioranza di Prodi si rompe sarà una sconfitta per tutti». Tale è ancora sentita da milioni di lavoratori italiani. Non è una questione nominalistica, né un discorso sul passato. Da qui discende infatti un interrogativo per il futuro: cosa dobbiamo intendere per
sinistra plurale’, termine che proprio Fausto ha importato? Tuttora l’idea di perseguire, sia pure con l’autonoma pressione critica e la lotta di una sinistra radicale, l’obiettivo di costruire un’alternativa più ampia non solo rispetto a Berlusconi, ma all’assetto attuale, storicamente determinato, del capitalismo neoliberista e neoimperiale? O intendiamo puramente la federazione tra il partito antagonista' attuale e i movimenti di contestazione della globalizzazione? Io resto alla prima versione, con tanto maggiore convinzione e speranza proprio perché vedo aprirsi una nuova fase di difficoltà e di crisi dell'assetto capitalistico attuale, un fronte di lotta ampio e molteplice, possibile oltre che necessario, per contrastarne l'egemonia, e di cui il
popolo di Seattle’ è sintomo e componente.
La condizione per coprire tutto questo fronte, per uscire da una minorità autogratificantesi, sta proprio nella crescita di una sinistra alternativa con una qualità e una quantità superiore a quella che oggi essa ha già: in Italia, come in Francia, in Germania e tanto più in altri paesi dell’Occidente. E proprio per questo capace di incidere nell’insieme della sinistra.
E la critica all’autosufficienza che esprimo non si rivolge solo a Rifondazione, alla quale non si può onestamente chiedere di correre il rischio dell’autoscioglimento, ma a quanti della famosa sinistra critica' si sono finora incomprensibilmente sottratti al rischio di impegnarsi in qualsiasi proposta di processo costituente. Costituente non di un
nuovo partito’ aggiuntivo ma che al contrario unisca, allarghi e mescoli le forze attuali.
È da qui invece a mio avviso' che occorre ripartire dopo il 13 maggio. Certo, anzitutto, con un impegno di produzione culturale, di riflessione storica, di elaborazioni programmatiche che la nostra rivista si è assunto e ha cercato di onorare, seppure con risultati ancora modesti e senza il necessario coraggio. Ma anche con atti e scelte politiche, compiendo almeno alcuni primi passi. Anzitutto un confronto critico e autocritico non reticente e non settario sull'intero decennio, e su come ciascuno si è mosso nei momenti cruciali, senza abusare dell'alibi offerto dalla
crisi epocale’, delle grandi trasformazioni sociali e culturali, per assolversi in partenza da ritardi ed errori maledettamente soggettivi e concretamente politici.
In secondo luogo la individuazione non solo di alcuni appuntamenti immediati, ma di alcuni terreni di lotta e di programma caratterizzanti per anni una vera oposizione: la redistribuzione del reddito, di che tipo e con quali strumenti; i termini nuovi e mobilitanti che emergono intorno alla questione ambientale; la battaglia e la proposta da mettere in campo contro la liquidazione della Costituzione e per una nuova legge elettorale; la mobilitazione sui punti cruciali del nuovo assetto internazionale, quelli più cruenti e più dimenticati come il massacro palestinese e quello più generale dell’autonomia dell’Europa dagli Usa e del segno da dare all’unificazione europea, alle sue istituzioni; la questione della scuola (ordinamenti e contenuti) da contrapporre alla privatizzazione già avviata; l’alt da imporre alle privatizzazioni insensate e il rilancio di un ruolo programmatore e non solo regolatore o integrativo dell’intervento pubblico nell’economia.
Infine – è il punto più delicato ma ineludibile – senza forzature organizzativistiche, l’indicazione esplicita della volontà di costruire una nuova forza politica, ridiscutendone radicalmente le forme ma senza accettare la demonizzazione del pur tanto compromesso concetto di partito.
Tutto ciò non è problema di un giorno, comporta un lavoro non breve, e soprattutto comune e parallelo dall’alto e dal basso. Ciascuno ha legittimamente dei vincoli e deve rispettare quelli degli altri. A nessuno si può chiedere di sciogliersi, ma è lecito chiedere a tutti di mettersi in discussione. C’è una pluralità di soggetti, non solo di realtà organizzate, che costituisce il limite ma anche la potenzialità di un processo costituente della sinistra alternativa, come motore di una trasformazione generale. Ma ci sono anche i tempi della realtà, che evolvono e si propongono senza poterli scegliere.
La fretta e la perentorietà di questo articolo – troppo lungo e anche con troppe lacune – nascono solo dall’urgenza di cominciare a discutere subito, con franchezza e generosità.
di Lucio Magri Il Manifesto n. 18, giugno 2001