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La sinistra e la guerra.

Abbiamo chiesto ad alcuni abituali collaboratori stranieri, intellettuali politicamente militanti e rispettosi dei fatti, un resoconto il più possibile aggiornato su come la sinistra in Occidente – governi, partiti, movimenti – abbia reagito all’attacco terroristico dell’11 settembre e poi all’intervento bellico anglo-americano.
Il quadro che risulta dall’insieme di questi resoconti non è per ora molto confortante.
La prima cosa che emerge – la più grave e generalizzata anche se meno inattesa – è la posizione dei grandi partiti, indifferentemente se al governo o all’opposizione, nei maggiori paesi europei. Non si tratta di ‘solidarietà col popolo americano’, condanna e impegno risoluto a combattere insieme il nuovo terrorismo. Si tratta di totale acquiescenza rispetto a ciò che l’attuale presidente americano pensa, fa, e si riserva di fare domani, per reagire a questa minaccia: cioè, nell’immediato, una vera guerra in Afghanistan (e forse oltre), che colpisce e annienta un intero paese, ed è destinata a stimolare, anziché a estirpare le radici del terrorismo e del fanatismo; in prospettiva l’affermazione di un esplicito ruolo imperiale degli Usa: un nuovo ordine mondiale. A questa acquiescenza corrisponde la totale rimozione delle cause che hanno prodotto il disordine, e la rinuncia ad una nuova politica che sarebbe necessaria per cominciare a rimuoverle.

Una tale subalternità culturale e pratica non si era avuta neppure ai tempi della guerra fredda: l’autonomia francese nella Nato, la Ost-politik tedesca, il dialogo coi paesi arabi dell’Italia, la prudenza inglese ai tempi della Corea e del Vietnam e quella spagnola sulla questione cubana: un minimo di articolazione e di dibattito tra paese e paese, tra destra e sinistra, allora si coglieva anche all’interno della Nato. Nella crisi del Golfo e in quella del Kosovo, e con la nascita dell’Unione europea, anziché prendere spazio e vigore, ogni autonomia e distinzione è invece venuta meno. Dapprima si è esplicitamente trasformato il Patto Atlantico da intesa difensiva in strumento esclusivo di governo del mondo, oggi la stessa Nato è diventata una corte di valvassori che ratificano le scelte del sovrano ancor prima di conoscerle effettivamente. E tutto ciò senza contrasti significativi e resistenza vera anche dall’interno di forze politiche, con tradizioni, anche recenti, autonomiste e pacifiste (socialdemocratiche, verdi, comuniste).
Il quadro nel resto del mondo, sempre a livello di governi e partiti, non è molto più incoraggiante – basti pensare alla Russia, alla Cina, all’India – ma è molto più complesso e più precario, e occorrerà analizzarlo meglio e leggerne le dinamiche. L’esecrabilità dei metodi e delle intenzioni del nemico, e la durezza dei rapporti di forza militari ed economici, rendono per ora la ‘grande coalizione’ senza confini, e ne soffocano le pur latenti tensioni interne.
Una seconda cosa emerge dai resoconti, ed è la seguente. In una vicenda certo improvvisa e drammatica, ma ormai abbastanza esplicitata in tutte le sue dinamiche, non solo si deve constatare la grande difficoltà dell’opinione pubblica democratica a orientarsi, la sua vulnerabilità alla manipolazione mediatica e alle correnti emotive; ma si vede anche grande difficoltà e disparità, nella mobilitazione ‘contro il terrorismo e contro la guerra’, del movimento avviato a Seattle, cresciuto a Porto Alegre, esploso a Genova, come movimento mondiale. Ciò è soprendente. Non era nato questo movimento proprio dal riconoscimento dei guasti e delle intollerabili ingiustizie della attuale globalizzazione? Non era animato dal riconoscimento del pluralismo e del dialogo tra culture ed etnie diverse, dunque dal rifiuto di ogni fanatismo o ‘conflitto di civiltà’? Non aveva cominciato a unificarsi, dopo anni di pratiche disperse e settoriali, individuando un comune nemico nel potere soverchiante delle multinazionali, della finanza, dei centri imperiali e delle istituzioni che ne promanano (Wto, Fmi, G8, ecc.)? Non doveva allora essere questa l’occasione per trovare nuove ragioni alla sua volontà di cambiare lo stato attuale del mondo, e fare capire queste buone ragioni anche ai tanti che per la prima volta si trovavano di fronte alle contraddizioni della nostra epoca ed erano direttamente coinvolti nella incertezza del proprio futuro?
Invece, almeno finora, il movimento è apparso come spiazzato, messo di fronte a piani della realtà che incontrava per la prima volta (gli Stati, la geopolitica, gli eserciti), a situazioni che è difficile unificare in una sola categoria (il mondo dei poveri e quello dei ricchi), al fenomeno di grandi ingiustizie che producono però rivolte barbare. A dover fare i conti insomma con una situazione storicamente determinata, con la complessità dei soggetti in campo, le ipoteche del passato, l’incertezza dell’avvenire, la pesantezza del potere reale e non solo dei suoi simboli: in sostanza con la politica in senso forte e non con i suoi simulacri e la sua facciata. E allora ‘il movimento dei movimenti’ si è differenziato da paese a paese. Ha mostrato la fragilità del suo radicamento sociale, le complicazioni delle sue procedure decisionali: il vantaggio delle reti è la flessibilità con cui possono resistere alla forza del mare e la estensione con cui possono vincere l’agilità del pesce; ma lo svantaggio è di avere tantissimi buchi e precari ormeggi.

Entrambi i fenomeni rivelati da questi resoconti modificano dunque qualcosa nella analisi, cui eravamo abituati, della sinistra vecchia e nuova, e obbligano a una riflessione più profonda, senza scetticismo ma con lucido realismo.
Esiste però ancora una volta una ‘anomalia italiana’, più confortante, che complica il quadro ma può anche aiutare a valutarlo senza un eccesso di pessimismo.
Sul terreno politico-parlamentare l’anomalia ha dimensioni limitate: quaranta deputati, meno del dieci per cento, hanno espresso una critica più o meno netta alla guerra: da Rifondazione ai Verdi ai Comunisti italiani a una piccola parte della sinistra Ds. Nelle confederazioni sindacali le riserve sono state un poco più estese e forti; e i metalmeccanici della Fiom e la corrente di sinistra della Cgil hanno detto no alla guerra. Comunque il fronte istituzionale a favore dell’intervento militare, non è stato compatto; giornali nettamente contrari al terrorismo e alla guerra hanno registrato un grande aumento di vendite; in televisione si sono presentate alcune occasioni di discussione effettiva.
La vera anomalia però si è misurata nel movimento di massa. Il ‘popolo di Genova’ è rimasto unito, si è esteso, è sceso in piazza. Dopo moltissime iniziative locali si è arrivati così alla straordinaria marcia Perugia-Assisi. Di essa la stampa e la televisione hanno dato un’informazione decente. È però utile tornarci sopra con qualche sottolineatura per accertarne la dimensione e valutarne sia il valore che il limite politico.

a) Dare i numeri di una manifestazione di piazza, o fidarsene, è sempre più difficile. Non solo perché non puoi contare i presenti, e le convenienze politiche li fanno vedere doppi agli organizzatori, e la stampa è abituata a riportare ciò che le pare. Ma perché nel corso degli anni, una specie di inflazione ha cambiato il valore reale delle cifre, vige un metro convenzionale di misura, sempre più simbolico. Ormai i ‘centomila’ si sprecano. Bisogna allora credere sulla parola, se hai fiducia in chi ti parla. Mi azzardo a testimoniare, dopo averla percorsa tutta e fino in fondo, che alla marcia Perugia-Assisi c’erano almeno 200.000 presenze reali. Se aggiungiamo il fatto che essa si svolgeva lontano da ogni area metropolitana e dalle principali vie di comuncazione, non aveva apparati che l’organizzassero, né soldi che la finanziassero; e pur sottraendo invece la crescita che negli anni si è avuta della generale mobilità, possiamo considerare questa manifestazione una tra le massime punte raggiunte nella storia politica dell’Italia repubblicana.
b) Il tratto dominante della manifestazione era generazionale: la presenza giovanile, che ormai è troppo ripetuta per considerarla effimera. Va anche sottolineata la ricchezza pluralistica di posizioni culturali e di appartenenza organizzativa. Era già una caratteristica del movimento a Seattle e a Genova. Ma il carattere violento dello scontro aveva portato là in primo piano la distinzione tra coloro che alla violenza in qualche modo reagivano e chi per scelta o sorpresa la subiva intimorito. A Perugia invece si sono potute cogliere tutte le differenze: una vasta area antagonista più o meno radicale e anch’essa articolata al suo interno, una presenza non irrilevante della base dei Ds, del sindacato, Arci, Legambiente, una molto rilevante e visibile componente cattolica, e tanta gente comune, non organizzata ma pronta a mobilitarsi.
Tanto pluralismo non si traduceva però in una ambiguità rispetto al messaggio che la manifestazione voleva mandare. La parola d’ordine, ‘contro il terrorismo, contro la guerra’, era condivisa senza se, né ma, né astuzie, da una maggioranza stragrande. D’Alema e Rutelli che avevano votato il giorno prima a favore dei bombardamenti in Afghanistan e hanno fatto un’apparizione a Perugia, non hanno suscitato, oltre a un po’ di fischi di dissenso, alcuna tensione: non tanto per la mitezza dominante, quanto per una generale indifferenza. La loro presenza era avvertita più che come una provocazione, come un omaggio che sempre l’ipocrisia tributa alla virtù.
Insomma la manifestazione non rappresentava certo un movimento molto ‘radicale’ – in verità meno di quanto pensassimo – ma certamente risoluto su alcune discriminanti fondamentali.
c) Questa insolita combinazione tra moltepicità e unità, positiva e vitale, non è però senza prezzo, e non esprime solo il meglio che il movimento può dare: ne fotografa anche i limiti. Soprattutto è precaria, ogni volta da ricostruire. Il movimento ha in testa chiaramente alcuni valori da difendere, e le grandi ingiustizie da riparare. Ma è ancora molto poco attrezzato a vedere ed agire in un contesto storico determinato. Mette ad esempio il dramma del Sud del mondo al primo posto, ma a Perugia quasi non vedevi e non sentivi parole o grida sulla questione palestinese, o sull’embargo all’Iraq, o sulle multinazionali farmaceutiche; lotta contro le diseguaglianze sociali e per i diritti, ma non sentivi un cenno allo scontro aperto sulla finanziaria e il progetto Maroni sui contratti; contesta la concentrazione del potere in poche mani e il nesso tra finanza e criminalità, ma l’attenzione all’incredibile legge berlusconiana sulle rogatorie era marginale.

Insomma un movimento che arriva alle soglie della politica per una tensione etica, ancora però non solo ne rifiuta giustamente i riti attuali, ma esita a darle concretezza di luoghi e obiettivi. È l’altra faccia, causa e conseguenza insieme, di un ancor debole radicamento in sedi, soggetti sociali, vertenze reali. Paradossalmente il ‘movimento dei movimenti’ è esploso quando i movimenti stessi non erano in buona salute. Può andare ‘oltre’ o può essere risucchiato dalla vecchia pratica dell’ ‘intergruppi’ e dall’ideologia del minoritarismo.
Perché, dopo la marcia Perugia-Assisi, e rispettando la sua logica vincente, il movimento non si è posto seriamente il problema di nuovi traguardi al suo sviluppo unitario? Perché ad esempio non si è puntato a fare dello sciopero dei metalmeccanici del 16 novembre una nuova scadenza su cui, tutti insieme, su temi decisivi e da tutti condivisi, allargare il fronte e approfondire i contenuti; anzi si è stati, nell’assemblea di Firenze, risucchiati in una diatriba interna tra le varie anime del movimento, in competizione tra loro su temi di date e di forme di lotta in cui affiorano velleità egemoniche molteplici?
È difficile, e sarebbe ancora incauto individuare le ragioni di questa ‘anomalia italiana’. Probabilmente vi concorrono elementi del tutto diversi tra loro. Alcuni legati alla storia lontana di questo paese: il carattere straccione e retorico dell’imperialismo italiano, la convivenza tra gretto provincialismo e cultura cosmopolita, guerre miserabilmente condotte e perdute, e grandi tradizioni pacifiste e anticolonialiste del movimento operaio e del mondo religioso. Altri elementi probabilmente sono congiunturali e in parte casuali: l’esperienza di Genova, dove il conflitto tra movimento e repressione poliziesca ha parlato per settimane a milioni di italiani di temi che poi nella vicenda della guerra riemergono; o la recente ascesa al governo di una destra torbida e pericolosa, che carica queste manifestazioni di un valore di resistenza generalmente democratica.
Altrettanto difficile è capire se la forza del movimento italiano contro la guerra è destinata a restare fenomeno isolato, e a declinare, o invece anticipa una tendeza più generale. A nutrire fiducia ci spinge la convinzione che siamo solo all’antefatto di una vicenda lunga e in drammatica evoluzione. Gradualmente diminuirà non l’esecrazione di questo terrorismo, ma l’impatto emotivo del suo clamoroso debutto; si coglieranno meglio e più diffusamente le radici e la portata del fenomeno, e il fatto che la guerra e il potere imperiale lo alimentano più che stroncarlo; si constateranno i prezzi umani e sociali del conflitto, i pericoli di un suo allargamento, i prezzi che comporta anche per i vincitori. Del resto è sempre stato così, la coscienza pacifista è cresciuta insieme all’evidenza dei disastri. Oggi lo è forse di più: per il carattere di una società arrogante, superpotente, e al tempo stesso fragile, nevrotica, timorosa; e perché la ‘grande alleanza’ porta dentro di sé interessi e poteri in tensione tra loro che presto possono emergere.
Ma questa stessa, possibile evoluzione delle cose in scenari sempre più drammatici è anche origine di grande angoscia. Perché, se non si riesce a fermare il meccanismo, l’approdo della guerra del XXI secolo sarà, prima o poi, la comune rovina.

di Lucio Magri Il Manifesto n. 22, novembre 2001