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New democracy.

1.George Bush non ha ottenuto la maggioranza dei voti espressi dagli elettori americani. Quasi sicuramente non ha avuto neppure la maggioranza in Florida. Per farlo presidente sono stati necessari quaranta giorni di conteggi, alla fine scavalcati dalla sentenza della Corte suprema federale, la quale non afferma affatto che lui abbia effettivamente vinto ma solo che non ci sono né strumenti né tempo per dimostrare il contrario (sentenza votata solo dai giudici nominati a suo tempo da Reagan e Bush padre e a loro fedeli).
Il caso ha certamente avuto un ruolo rilevante in questa grottesca vicenda: può infatti non accadere mai, per secoli, che in un paese di 200 milioni di elettori il risultato si giochi come questa volta su qualche centinaia di voti contestati e contestabili. È evidente però che si tratta di un caso eccezionale, ma niente affatto sorprendente. Se si analizzano i singoli aspetti e i passaggi della vicenda è infatti facile vedere come in essa vengano alla luce meccanismi viziosi che da sempre e strutturalmente limitano e inceppano la democrazia americana.

A.Un sistema elettorale così seccamente maggioritario e una separazione tanto netta tra parlamento e governo, che può portare ad affidare, anche per il voto di un solo cittadino, per lunghi quattro anni, in esclusiva e a una sola persona, il potere esecutivo in un enorme paese che oggi regola gran parte delle vicende mondiali.
Sembra la quintessenza della democrazia; in realtà è un’astrazione che permette di emarginare un vero ruolo di opposizione e dietro al quale agiscono e crescono fuori dal circuito della sovranità popolare altri soggetti e procedure per l’esercizio del potere reale.
B.Uno Stato federale che all’origine radunò regioni estremamente difformi tra loro e per tutelarle si diede una Costituzione molto scarna e molto rigida, che fu poi estremamente difficile emendare e rinnovare, ma al tempo stesso venne via via affiancata da istituzioni e regolamenti attuativi molto diseguali e approssimativi.
Esempi tipici di questo misto di arcaismo, localismo e improvvisazione: la sopravvivenza di un incomprensibile quanto inutile collegio di grandi elettori per la scelta del presidente; l’assoluta incongruenza, Stato per Stato, tra numero di cittadini e numero di rappresentanti; la convivenza, fino a livello di contea, di migliaia di leggi e pratiche elettorali, tra le quali in caso di controversia tanto è difficile districarsi quanto è facile l’imbroglio.
C.Un’originaria tensione tra il principio del suffragio universale, accettato con largo anticipo rispetto all’Europa, e la cultura e gli interessi delle élites all’epoca dominanti che se ne sentivano minacciate. Questa contraddizione si è ripresentata anche successivamente per evenienze storiche e sociali eccezionali (la guerra civile, l’eredità dello schiavismo, i nuovi giganteschi flussi immigratori) ed è stata empiricamente affrontata con regolamenti, consuetudini e pratiche abusive rivolte a limitare o controllare la partecipazione al voto.
Esempi tipici: il diritto di voto subordinato alle procedure complesse di iscrizione alle liste elettorali; l’esclusione dal voto (più o meno a seconda dello Stato) non solo dei carcerati, ma anche di chi vive in libertà vigilata o ha scontato la pena (più di quattro milioni questa volta, seicentomila nella sola Florida, soprattutto neri).
D.Una strutturale debolezza delle forze politiche nazionali. In realtà, coalizioni elettorali fortemente eterogenee e mutevoli e non veri partiti. Di qui la frammentazione della rappresentanza, la pratica di maggioranze parlamentari trasversali, la prevalenza del ruolo di singole personalità, a volte di dinastie, e la diffusione intorno a loro di una fitta rete di clientele locali legittimate e alimentate dalla ‘spartizione delle spoglie’ e dal ruolo delle lobbies .
E.Infine un sistema giuridico basato, secondo la tradizione anglosassone, non su codici precisi quanto sulla prassi e sui precedenti: dunque con il pregio della flessibilità in rapporto al caso specifico, ma molto rischioso quando si tratta di dirimere controversie di valore generale secondo criteri certi e uniformi. Con una difficoltà supplementare, collegata sia al carattere federale dello Stato, sia alla nomina politica di numerosissime funzioni pubbliche. Particolarmente acuta nel caso del sistema giudiziario: sovrapposizione di molte sedi e livelli di giudizio, organi giudicanti direttamente o indirettamente nominati dal potere politico.
Questi elementi non sono affatto nuovi, anzi erano universalmente conosciuti. Non solo dagli esperti, o dagli spiriti critici, ma da tutti. Alla convinta autocelebrazione della “più grande e antica democrazia occidentale”, si è infatti sempre accompagnata una descrizione impietosa delle storture della politica americana, dei suoi gruppi dirigenti, dei suoi metodi di manipolazione dei voti (perfino nella letteratura e nel cinema di largo consumo). Non varrebbe quindi la pena di insisterci. Se non perché, in Italia, si può ora più facilmente tagliare le gambe alla campagna rivolta all’imitazione del modello politico americano che ha intossicato la cultura e la politica anche della sinistra.

Tuttavia, concentrando l’attenzione sullo spettacolare ‘lungo scrutinio’ si corre il rischio di sottovalutare altri elementi che sono emersi nell’insieme di questa competizione come sintomi e anticipazioni della futura evoluzione del sistema politico in tutto l’Occidente.
2.Mi riferisco, in primo luogo, ad alcuni fenomeni, tra loro connessi, non del tutto nuovi, ma di cui ora emerge più chiaramente la portata.
A. L’indifferenza per la politica, in particolare per la politica istituzionale e a dimensione nazionale, dunque l’astensionismo. Sotto questo aspetto a prima vista una novità non c’è: la bassa partecipazione al voto c’è stata sempre nelle elezioni americane (tra un massimo del 64% e un minimo del 49% per le elezioni presidenziali, e fino al 32% in quelle parlamentari. Per qualche ora, il 7 novembre, le televisioni di tutto il mondo hanno parlato di una improvvisa crescita di partecipazione, che poi non c’è stata: ha votato il 50,8% degli aventi diritto, rispetto al 49,9 del 1996, al 55% del 1992 e al 63% del 1960. Si registra dunque una stabilità dell’astensione. Ma una stabilità un po’ ingannevole. Perché, nel corso degli ultimi decenni, grazie alla rimozione di alcuni degli ostacoli al diritto di voto e a una campagna condotta da molte parti, gli iscritti alle liste elettorali sono cresciuti del 15%. In secondo luogo perché, sempre negli ultimi decenni, è aumentata enormemente la diffusione dei mezzi di informazione, è cresciuto il livello di scolarità (anche tra le minoranze etniche) e si è aggiunto infine un nuovo strumento (45 milioni di collegamenti Internet) da cui ci si aspettava meraviglie di partecipazione. È riferendosi tutto ciò che va realmente commisurato l’astensionismo, e solo così può essere indagato ciò che lo produce.

Infatti, come e ancor più dell’astensionismo cresce il disinteresse, testimoniato dai sempre più bassi indici di ascolto del dibattito elettorale, dall’impressionante volatilità delle scelte e delle opinioni registrate nei sondaggi, infine dalla verificata mancanza, anche tra gli strati fortemente scolarizzati, delle informazioni di base su cui una scelta politica possa basarsi. Non meno significativo, nuovo e premonitore è il modo in cui, nell’ultimo decennio, evolvono i comportamenti delle varie generazioni: vota un americano su due mediamente, ma due su tre sono oltre i 60 anni, e invece uno su tre tra i 18 e i 24 anni.
B. Le spese elettorali. Ormai può vincere le elezioni, anzi può di fatto parteciparvi, solo chi dispone in partenza di cifre colossali da investirvi. Nel 1992 i candidati hanno speso un miliardo di dollari, nel 1996 due miliardi, nel 2000 tra tre e mezzo e quattro miliardi. Il fenomeno riguarda tutti i livelli: la presidenza è costata poco più di un miliardo (sempre di dollari), un posto di senatore mediamente 300 milioni. E l’investimento è efficace: il 92% dei deputati e l’88% dei senatori eletti sono quelli che hanno speso di più. La massima parte di questa spesa è connessa all’uso necessario quanto obbligato dei mass media.
E qui si innesta un meccanismo perverso e cumulativo: quanto più la gente è disinteressata alla politica ed estranea a ogni forma attiva e permanente di partecipazione, tanto più il solo modo di raggiungerla è il messaggio televisivo, ridotto all’estrema rozzezza dello slogan e sufficientemente generico per arrivare a tutti, e tanto più ne viene reciprocamente alimentato il disinteresse e il primitivismo dell’opinione pubblica. Occorrono sempre più soldi per ottenere effetti decrescenti; sotto una certa soglia, non ‘si esiste’.
Da dove vengono quei soldi è noto: quasi per intero dai grandi gruppi finanziari e industriali, da quell’1% di popolazione straricca che ha assorbito la gran parte del maggior reddito prodotto nell’ultimo ventennio. Questa non è in sé una novità: lo è per la dimensione dell’investimento e soprattutto per il suo carattere. In altri tempi Wall Street finanziava i Repubblicani in rapporto a una politica e a una ideologia; una parte dell’industria e i grandi sindacati sostenevano i Democratici. Ora oltre a precisi settori che mantengono un rapporto specifico in ragione di interessi diretti (come l’industria delle armi o del tabacco) ciascuno dei grandi finanziatori ha distribuito le sovvenzioni quasi egualmente tra i due contedenti per assicurarsi così un rapporto di fiducia, chiunque risultasse poi vincitore.

Le conseguenze sono molteplici, evidenti e molto pesanti. Nessuno dei grandi partiti può permettersi né nazionalmente né localmente di toccare in modo incisivo interessi o modi di pensare di grandi imprese e di grandi gruppi finanziari. La selezione dei candidati avviene prima ancora che il processo elettorale cominci, perché già per affrontare le primarie occorre ormai in partenza una dote di risorse accessibile a pochissimi. Deputati e senatori restano in carica pressocché a vita (in oltre il 90% dei casi vengono rieletti gli uscenti) perché a loro è più facile raccogliere le necessarie risorse materiali. I criteri della selezione, per così dire al rovescio, sono ormai non solo le relazioni di fiducia con i poteri forti ma anche, paradossalmente, una comprovata mediocrità politico-intellettuale: per la prima volta Bush è stato avvantaggiato nella pubblica opinione non dalla ammirazione che la sua intelligenza o le sue proposte suscitavano, ma dalla modestia delle sue prestazioni, a volte dagli errori grossolani, che permettevano allo spettatore indifferente e diffidente di identificarsi con la sua incompetenza.
C. Il partito unico bicefalo. La convergenza tra i due grandi competitori politici è, da molto tempo, una tendenza di fondo del sistema politico americano. Per il concorso di molti fattori: il sistema maggioritario presidenziale che toglie possibilità di espressione a minoranze in formazione (e offre ai due partiti l’arma formidabile del ‘voto utile’ per garantirsi la fedeltà del proprio elettorato, anche quando è insoddisfatto); l’assenza, da sempre, di una forza politica caratterizzata da una identità ideologica e di classe quale, per un secolo, è stato altrove il movimento operaio; la molteplicità di fisionomia politica tra varie regioni (significativa la presenza e il peso che ha avuto nel Partito democratico il conservatorismo razzista del Sud perfino nei tempi d’oro della coalizione roosveltiana). La politica consociativa ha quindi molto spesso caratterizzato sia le scelte fondamentali che la minuta attività legislativa.
Ciò non ha impedito la ‘grande politica’ né grandi scontri sociali e culturali. In alcuni momenti cruciali, in cui le cose stesse e i rapporti di forza nella società imponevano grandi svolte, uno dei partiti ne prendeva l’iniziativa e la direzione. Successivamente tuttavia si ricostruiva una relativa convergenza sul nuovo terreno. Insomma un sistema dell’alternanza, non come sinonimo, ma piuttosto come antidoto a un’alternativa.
Tuttavia, ancora nel recente passato, almeno durante le campagne elettorali, sono emersi taluni elementi di conflitto legati a una tradizione o a una base sociale definite.

Nel 1992, ad esempio, Clinton, pur operando uno spostamento al centro, si caratterizzò affermando la necessità di una svolta rispetto alla politica sociale antiegualitaria del reaganismo, e prendendo l’impegno, poi disatteso, di un nuovo sistema sanitario. Nel 1996 questo spostamento non si ripeterà, ma la differenziazione si ripropose dalla parte repubblicana per effetto della offensiva reazionaria, promossa nel biennio precedente da Newt Gingrich, che inizialmente aveva avuto successo e prodotto grandi timori. Nell’attuale elezione l’omologazione tra i due partiti è invece divenuta molto più evidente. Le scelte fondamentali di politica economica e di politica internazionale non sono mai state in discussione, tanto meno controverse. Bush ha guidato uno spostamento del Partito repubblicano verso posizioni che Clinton aveva già assunto (il conservatorismo ‘compassionevole’), e Gore si è – nella Convenzione – caratterizzato con un richiamo già in sé molto generico in difesa dei più deboli (per esempio sul tema cruciale della sanità), che poi ha relegato sempre più ai margini nella campagna elettorale effettiva.
L’aspetto forse più nuovo e più rilevante in questo ulteriore processo di omologazione non è però forse quello dei discorsi e dei programmi, quanto quel che è avvenuto nell’equilibrio dei poteri. Tradizionalmente la norma era quella dell’omogeneità tra maggioranza parlamentare e presidenziale, oppure della coabitazione tra un presidente repubblicano e una maggioranza parlamentare democratica. Negli ultimi due decenni l’esistenza di due maggioranze diverse è invece divenuta quasi normale e in entrambe le versioni possibili. Ora si è arrivati al caso limite: un voto popolare lievissimamente favorevole a Gore, Bush eletto presidente, un Senato diviso esattamente a metà, un Congresso a esigua maggioranza repubblicana. Il consociativismo diventa quasi una necessità permanente, un dato strutturale.
Se è stato possibile il colpo di mano della Corte suprema, e se il giorno dopo l’80% degli americani già dichiarava di accettarlo o condividerlo, è proprio perché l’indifferenza rispetto ai due candidati e ai due partiti tanto simili tra loro toccava non solo il 50% che si è astenuto, ma anche il 50% che ha votato.
Qualche altra considerazione può e deve essere fatta sull’andamento effettivo delle elezioni.
Poche centinaia di voti in Florida hanno potuto produrre un così gigantesco pasticcio perché Gore è riuscito a prendere nel complesso del paese solo una maggioranza dello 0,2%, ha perso in alcuni Stati ritenuti sicuri (Arkansas, Ohio, Arizona, Missouri), compreso il proprio (il Tennessee). Questa dovrebbe essere la vera sorpresa da analizzare. In partenza esistevano infatti condizioni eccezionalmente favorevoli per una vittoria del Partito democratico. L’economia americana ha attraversato una fase congiunturale positiva tra le più prolungate del dopoguerra. È incerto se Clinton vi abbia contribuito, certo non ne ha ostacolato la logica spontanea, e ha dato carta bianca a quel Greenspan che tutti consideravano il suo vero regista. Inoltre, a differenza del decennio precedente, questa espansione stava producendo qualche risultato positivo anche per una fascia intermedia di popolazione, in termini di occupazione, di reddito, e particolarmente di guadagni finanziari. La posizione americana nel mondo appariva consolidata non solo in termini di forza militare, ma come modello sociale e culturale. Al tempo stesso si potevano cogliere segnali di una coscienza critica prudente ma diffusa circa le eccessive diseguaglianze dell’ultimo ventennio, e l’inadeguatezza di molti servizi collettivi (scuola, sanità): la gente nei sondaggi chiedeva non tanto un taglio delle tasse ma una moderata espansione della spesa sociale. Era anche in atto da un biennio una ripresa di iniziativa e di forza del sindacato, che tornava più esplicitamente a collegarsi con il Partito democratico.

Perché allora un risultato così striminzito? Non bastano a spiegarlo errori tattici e di propaganda. Si sarebbe quindi indotti a pensare che, arrivati ormai a un punto così avanzato di somiglianza tra i due partiti e i loro programmi, e a una tale disaffezione degli elettori rispetto ad essi, anche quelli che votano per l’uno o per l’altro lo facciano abbastanza casualmente, senza un rapporto preciso con i loro meriti e demeriti, seguendo stimoli molto effimeri, e sulla base di impressioni sulle caratteristiche personali dei candidati. A un’omologazione dell’offerta politica corrisponde una domanda altrettanto indifferenziata e volubile.
Se tuttavia andiamo a vedere le indagini sociologiche e i più seri sondaggi del dopo voto (chi ha votato chi e perché), ci accorgiamo che le cose non sono tanto semplici. Colpisce un fatto: una situazione di equilibrio generale così estrema non è la risultante di un corrispondente equilibrio e di una forte uniformità nei vari settori della società e dell’opinione. Tutto il contrario: è la somma di differenze abbastanza grandi in vari settori che si compensano tra loro. Differenze culturali: tra gli elettori di Gore e quelli di Bush ci sono stati distacchi molto elevati tra uomini e donne (54 a 42, un distacco mai registrato); tra chi pratica una religione e chi no (uno contro due); tra favorevoli e contrari alla legalizzazione dell’aborto, tra chi vorrebbe riconosciuti i diritti degli omosessuali e chi li osteggia. Ancor più sorprendenti, perchè nuove, le differenze legate al luogo di residenza: nei piccoli centri 59 a 37% a favore di Bush, un dato che si attenua nelle città medie e si rovescia nelle grandi. La differenza di scelta elettorale nelle minoranze etniche è stata forte come e più del passato (90% a Gore tra i neri, il 65% tra gli ispanici, il 60% tra gli asiatici), malgrado che negli ultimi anni il movimento dei neri sia stato meno forte e spesso diretto da leader politicamente moderati.
Forti squilibri si registrano anche rispetto alla stratificazione sociale: ma in questo caso con un carattere molto diseguale e contraddittorio. A parte i lavoratori sindacalmente attivi, che hanno votato come sempre prevalentemente democratico, la generalità degli elettori si è distribuita in forme nuove e diseguali in relazione al loro reddito. Tra chi dispone di un reddito inferiore a 15.000 dollari l’anno la maggioranza per i democratici è schiacciante (come nel passato, tra chi vota, il timore per nuovi tagli al Welfare pesa più del ricordo di quelli subiti); tra i redditi tra 15 e 30.000 dollari (lavoratori a bassa qualifica) prevale invece Bush; tra i 30-50.000 dollari c’è una lieve maggioranza per Gore e tra i 50-75.000 di Bush; prevalente – ma meno che in passato – il voto repubblicano tra i relativamente ricchi (oltre i 100.000 dollari), ma sorprendentemente equilibrato il voto tra i molto ricchi (oltre i 150.000). In sostanza, esiste una netta maggioranza potenziale per i Democratici, che però non si esprime.

Due cose appaiono nel complesso abbastanza chiaramente. La società americana, come nel passato, resta politicamente non uniforme ma assai divisa, non solo tra chi vota e chi non vota ma anche tra quelli che votano. Le divisioni, tuttavia, oltre a essere frammentarie (legate cioè a una questione particolare a proposito della quale un elettore nutre una speranza o un timore, o a un ambiente in cui in qualche modo si trova collocato), sono però, a differenza del passato, legate a discriminanti culturali o etniche piuttosto che alla collocazione economico-sociale. Malgrado che nell’ultimo ventennio il fenomeno più impressionante della società americana sia stato costituito dalla crescita delle diseguaglianze nei livelli di reddito o nelle condizioni di lavoro. Alla maggioranza di coloro che le patiscono, queste diseguaglianze – per molteplici fattori materiali o culturali – non appaiono più chiaramente connesse con la politica, né si considera che il meccanismo elettorale possa cambiare qualcosa. E viene soprattutto meno un discorso politico complessivo.
Ciò spiega il risultato di Gore: è ulteriormente franata, nel tradizionale blocco sociale e culturale dei Democratici, l’architrave della questione sociale. Il dibattito politico non è più capace di nominarla. Una parte dei lavoratori occupati non vota più fedelmente per loro, una grande parte delle minoranze oppresse e marginali ancora e sempre più si astiene. Non c’è opposizione, ma dissenso, non c’è alternativa ma pluralismo di minoranze separate.
Ciò spiega anche il risultato di Nader. Il terzo candidato ha avuto un risultato buono ma al tempo stesso lontano da ciò che si sperava e occorreva. Buono perché è passato dai 600.000 voti del ’96 ai 2.700.000 del 2000 (presi non tanto a Gore quanto all’astensionismo). Deludente però rispetto all’obiettivo essenziale che occorreva raggiungere: un 5% necessario per rompere in futuro il muro della censura di fatto, e anche atteso, sulla base di ciò che ultimamente si era mosso nella società. A Seattle era emerso un movimento non solo più vasto e molteplice (ambientalisti, settori sindacali, studenti), ma anche capace almeno nelle intenzioni, di unificarsi e di proporsi i temi della lotta politica per contrastare fortissimi avversari non locali ma nazionali e mondiali (gruppi finanziari, l’Fmi, il Wto). Le elezioni hanno mostrato che tale obiettivo di una terza forza politica e sociale è allo stesso tempo vitale – perché non ci sono più modi e spazi per una dialettica interna ai grandi partiti come ai tempi della Raimbow coalition di Jackson – ma ancora molto lontano e difficile.
In conclusione, le elezioni americane non sono state affatto insignificanti. Vi si è compiuto un passo avanti rilevante in un processo di neutralizzazione della democrazia e del suffragio universale. Il potere si fonda e si gestisce ormai soprattutto su altre strutture: o direttamente sui meccanismi dell’economia di mercato e sulle grandi concentrazioni che essa produce e seleziona; oppure, mediatamente, sulle grandi istituzioni tecnocratiche (militari, mediatiche, giudiziarie, formative).
Tutto ciò ha, tuttavia, comportato e comporta un prezzo molto pesante, anche dal punto di vista del sistema: il decadimento della qualità e del prestigio della classe dirigente politica, della sua capacità di elaborare e perseguire obiettivi globali e di lungo periodo, di ottenere consenso duraturo e mobilitazione nella maggioranza della società.
Se, finché e laddove l’economia si svilupperà e la società riuscirà a convivere senza una ‘grande politica’: allora nessun problema. Ma stanno realmente così le cose? Non è evidente che oggi più di ieri questioni essenziali in ogni campo esigono progetti e decisioni globali e di lungo periodo, e che tali progetti non si possono realizzare senza una capacità diffusa di giudizio, di partecipazione, di invenzione? E allora il nuovo modello politico americano pone interrogativi inquietanti a tutti, e in particolare alla sinistra europea.

di Lucio Magri Il Manifesto n. 13, gennaio 2001