«Le avversità offrono anche occasioni», ha detto Fassino al suo esordio da segretario, citando Vico. Molto giusto, e anche molto pertinente nella attuale situazione dell’Italia e del mondo. Purtroppo però, il più delle volte, le occasioni vengono dissipate, e le avversità si aggravano. Proprio questo è avvenuto al congresso appena concluso.
Era un congresso straordinario, come più non si poteva. Imposto da una sconfitta elettorale che aveva consegnato il paese nelle mani di una destra pericolosa e indecente; imposto dalla sconfitta ancor più pesante dei Ds, che avevano perso voti e ruolo al di là di ogni attesa; imposto infine da un declino organizzativo costante, da un disagio mai risolto del gruppo dirigente, da un rapporto difficile con il sindacato a sua volta diviso e in crisi.
Da tutte queste avversità', appunto, prese il via, subito dopo le elezioni, una controversia molto aspra, a tutti i livelli, prevalentemente concentrata sull'attribuzione delle colpe passate, e invece ancora confusa e reticente sul futuro. D'Alema con le sue legioni nel Metaponto, Veltroni auto-esiliato sull'Appia, i proconsoli che si disputavano i gruppi parlamentari. Per dare senso e dignità politica al conflitto, e risolverlo civilmente, fu convocato un congresso in tempi stretti e con segretario vacante. Da ogni parte e ad ogni livello un solo grido si levava concorde: cambiare, cambiare uomini, metodi, comportamenti, linea politica. Noi non abbiamo dato gran credito a questa volontà di svolta. Andando a decifrare le dichirazioni politiche ci sembrò subito prevalente al vertice una volontà di continuità, e una tendenza, sia degli apparati intermedi che alla base del partito, ad accettarla non perché sottovalutavano la crisi, ma nell'illusione di arginarla con un rinnovo immeritato della delega a un capo. Ciò non ci impediva di vedere che un travaglio reale, questa volta, era in atto. La maggioranza di Torino si era rotta, e non per finta. Si veniva coagulando, sia pure con ritardo e con timidezza, una opposizione di sinistra intorno a un giudizio non equivoco sulla causa principale della sconfitta (l'eccesso di moderatismo sociale e di omologazione culturale del partito e della coalizione), e dunque intorno alla proposta di nuove priorità politiche e sociali. In questa battaglia di opposizione entravano inoltre in campo la componente diessina della Cgil e il suo segretario generale. Il maggior motivo di interesse del congresso era però un altro: il fatto che stavano emergendo non solo la necessità, ma in qualche misura anche qualche possibilità di svolta, di svolta a sinistra. Per l'insorgere di molto rilevanti novità nella situazione politica, sociale, internazionale, con una accelerazione eccezionale e sorprendente. In una sequenza di pochi mesi: il cambio dell'amministrazione americana, la bolla finanziaria che si sgonfia e apre la strada a una stagnazione dell'economia reale in ogni parte del mondo, la crescita improvvisa di un movimento mondiale di critica e contestazione del processo di globalizzazione e di modernizzazione capitalistica neoliberista e neoimperiale. Infine un attacco terroristico non solo sconvolgente per la sua dimensione, ma per il retroterra ideologico e sociale che lo genera o di cui può alimentarsi; e la risposta che l'Occidente gli oppone, interamente concentrata sullo strumento guerra, totalmente delegata alle scelte di una potenza dominante, senza che si possa cogliere alcun elemento che segnali un ruolo autonomo dell'Europa, o una visione del mondo specifica della sinistra. Su ciascuno di questi fatti si possono avere divergenze di analisi, di previsione, di giudizio, di scelte: noi abbiamo cercato di dire via via la nostra opinione. Una cosa comunque è evidente. Tutti i capisaldi sui quali si reggeva con qualche dignità la linea che possiamo convenzionalmente definire
Clinton-Blair-D’Alema’, è stata messa radicalmente in discussione dalle cose. La visione ottimistica e apologetica della modernizzazione economica. Il consolidarsi di una leadership progressista-moderata alla testa delle maggiori società capitalistiche, adatte a stimolarne il naturale funzionamento, e a correggerne, senza alterarne le leggi, squilibri troppo pesanti. Il carattere normalmente pacifico e gradualmente più esteso della regolazione dei rapporti internazionali e la generalizzazione dei metodi democratici: salvo crisi eccezionali rispetto alle quali cresce gradualmente una capacità di intervento di polizia regolato da leggi e istituzioni garantite. Che restava più di tutto ciò?
Allo stesso tempo, e corrispettivamente, si erano manifestate spinte critiche, e volontà alternative che, pur essendo radicali, vanno molto oltre i confini politici e sociali tradizionalmente assegnati alla sinistra, impugnano `buone ragioni’ per un forte cambiamento, così da risultare in qualche modo convincenti per un arco abbastanza ampio di forze politiche, di tradizioni culturali, di classi sociali; tentano di elaborare obiettivi concreti, di rifiutare altrettanto concrete ingiustizie, ma al contempo, pur vaccinate rispetto alle illusioni del potere totalitario e anzi sensibilissime al tema della democrazia e del suo allargamento, hanno ormai interiorizzato scetticismo e spesso disprezzo per i partiti esistenti e per la forma attuale delle istituzioni. I primi materiali di un blocco storico trasformatore, ben oltre la pura resistenza.
Insomma un nuovo quadro, di enorme difficoltà per un riformismo gestionario e modernizzatore, e che al contempo però apre anche qualche spiraglio, qualche speranza per chi ci crede, ad un riformismo forte, gradualista nei suoi metodi, realistico nei suoi obiettivi immediati, ma ambizioso nei suoi traguardi più lontani, organico nel suo disegno di società, capace di costruire un sistema di alleanze sociali e politiche con esso coerente, e di riannodare il filo di una memoria storica e di una cultura che lo animino.
Né le avversità cui reagire, né le occasioni nuove da esplorare, sono però bastate. Al congresso di Pesaro non c’è stata nessuna svolta. Un gruppo dirigente totalmente riconfermato in tutti i ruoli chiave ed epurato dai dubbiosi. Una linea politica non solo riproposta, ma resa, nei contenuti, ancor più secca ed esplicita come la nuova situazione e i nuovi rapporti di forza esigevano, in tutti i campi (la politica internazionale di passiva subordinazione agli Usa, l’atteggiamento più che reticente rispetto al nuovo contenzioso sociale e ai contrasti tra i sindacati, la linea di riforma istituzionale definitivamente maggioritaria, le nuove frontiere delle privatizzazioni), liberandola dalle buone intenzioni verbali con cui al congresso di Torino Veltroni l’aveva condita e mitigata.
Di quale svolta parlano dunque giornali poco seri e troppo compiacenti? Svolta socialdemocratica? È già stata proclamata e praticata più volte, e nella versione più modernizzante', quella di Tony Blair. Basta la benedizione di Amato e la confluenza di Boselli per liberare questa volta la crisalide? Oppure
svolta riformista’? È la parola ormai più abusata applicabile a tutto e tutti. Fassino tenta di delimitarne il significato così: una sinistra che non rilutti a responsabilità di governo e accetti le compatibilità inerenti. Francamente una tale riluttanza da molti anni non l’avevamo mai vista tra i Ds. Se non stanno al governo è semplicemente perché hanno perso le elezioni.
In realtà una sola priorità definisce dopo Pesaro prospettive e speranze di recupero: conservare una legittimità conquistata, una credibilità come forza affidabile e capace – perché moderata ed efficiente – di gestire l’attuale sistema: in attesa che Berlusconi risulti troppo avidamente primitivo nei confronti dei lavoratori, e troppo incompetente e impresentabile agli occhi dei poteri che contano.
Insomma, l’esatto contrario del proclamato: `Cambiare o morire’. Piuttosto sopravvivere, sperando in tempi migliori. Un calcolo cinico, ma apparentemente realistico. Se non fosse più probabile che in questo modo i Ds e l’Ulivo si sfascino prima che Berlusconi declini.
- Meno facile, e più inquietante, è però l’interrogativo: perché questo esito congressuale? Perché D’Alema ce l’ha fatta, con relativa facilità, pur nelle condizioni peggiori? È ponendosi questo problema che si può azzardare una previsione sul futuro.
Chi ha seguito e analizzato con qualche attenzione le varie fasi dell’itinerario congressuale, il dibattito di base, i risultati nelle sezioni, può trovare alcuni elementi per rispondervi, interessanti e trascurati. Hanno agito due fattori.
Il primo. La linea via via emersa in questi dieci anni nel Pds, poi Ds, non è stata solo il frutto di una scelta, ma anche il prodotto di processi sociali e culturali profondi, di rapporti di forza mondiali, di smottamenti lontani nel tempo. E non esprimeva solo scelte tattiche, dettate da convenienze occasionali, ma una analisi, una strategia, un modo di far politica sorretti da una forte convinzione, e via via condivisi. Di più. Questa linea ad un certo punto ha assicurato il raggiungimento di un obiettivo da decenni vagheggiato e che, per l’attuale classe dirigente, sovrasta ogni altro. Un obiettivo intorno al quale destini personali e sorti collettive convergono e si alimentano: la conquista del governo, nazionale e locale. Tutto ciò ha permeato e rimodellato il partito nel suo insieme e ad ogni livello, tanto più perché veniva a colmare il vuoto tremendo aperto dalla crisi e dal dissolvimento del Pci; e ha fornito la base di una rete di alleanze politico-elettorali precarie ma indispensabili, di relazioni di potere e con i poteri, garanzia di consenso e di legittimazione.
La recente sconfitta, la virulenta riacutizzazione di una crisi, non è dunque connessa solo a errori tattici, sia pure gravi, ma alla strategia da cui quelle scelte erano suggerite, o alle cui carenze tentavano di porre riparo.
Una svolta a sinistra' per capire le cause di quella sconfitta e per rimuoverle, incontrava dunque ostacoli grandi. Implicava mutamenti profondi di cultura, di personale politico, di interlocutori sociali. Anche se avviata con realismo e prudenza, entro l'orizzonte del
riformismo’ e della cultura di governo', una tale svolta poteva avere successo solo se acquistava la chiarezza e la determinazione necessaria a farsi capire e apprezzare, a mobilitare gente nuova, a costruire nuove alleanze; e comunque richiedeva il tempo necessario. Una strada facile e breve per costruire
una grande forza socialdemocratica’, ammesso che l’espressione abbia o possa trovare un significato nuovo e adeguato, non c’era e non c’è. Tale impresa difficilmente poteva trovare all’interno del partito le forze necessarie – tanto più dopo il lungo sonno' della sua sinistra – e rappresentava un rischio elevato: il rischio di sconvolgere ciò che restava e di costruire poco. Perciò una linea spericolatamente
nuovista’ è riuscita a far leva sulle preoccupazioni conservatrici degli apparati e anche nella base. `Salviamo il partito che c’è , anche se non siamo d’accordo’.
Il secondo fattore della vittoria di D’Alema è stato meno nobile e più preoccupante ancora (anche per lui): una degenerazione ormai avvenuta nella costituzione materiale del partito. Non è affatto vero che la partecipazione al congresso sia stata bassa, mediamente è stata invece elevata. Ma che tipo di partecipazione, e come governata? Su questo il giudizio di tutti, quando è sincero, è concorde anche se poi lo si rimuove. Non è necessario, e sarebbe ingeneroso, insistere quindi sulla casistica. Basti dire che quasi ovunque il tesseramento si è gonfiato dopo la convocazione del congresso e in poche settimane, in parte per compagni che tornavano mossi da una speranza, ma molto più per reclutamenti improvvisati e collettivi, promossi da un assessore, da un sindaco, da un gruppo dirigente locale. I votanti sono stati ovunque molto più numerosi dei partecipanti alla discussione, in qualche caso avvicinandosi al totale degli iscritti o addirittura degli elettori. Il peso degli apparati, quelli di tipo nuovo (frutto di recenti governi o di amministrazioni ancora in carica) è stato superiore al passato: e i risultati, in sezioni limitrofe, hanno registrato perciò maggioranze schiaccianti, magari opposte. Il peso organizzato della Cgil, a sostegno della sinistra, è risultato invece modesto, segno che, la sua base attiva, a parte i pensionati, è ormai lontana dall’organizzazione politica. In breve un partito non solo del tutto diverso dalle migliori tradizioni del comunismo italiano, ma anche dal modello tuttora caratteristico nella socialdemocrazia. Più brutalmente, un partito già contaminato dal virus doroteo e craxiano: cioè l’autoriproduzione del ceto politico, non necessariamente corrotto o clientelare, ma comunque poverissimo di partecipazione, ricchissimo invece di legami personali, di tutele promesse, di carriere programmate.
Ma se così stanno le cose, è difficile evitare una conclusione. Cambiare la linea e il gruppo dirigente di questo partito nelle forme e con gli strumenti offerti dal tradizionale dibattito interno è totale illusione. La svolta mancata questa volta è molto più improbabile nel futuro.
- Se questa analisi è fondata, e ancor di più se in qualche misura nella stessa direzione si muovesse – vi è qualche segnale – l’insieme della sinistra europea, c’è poco da stare allegri. E sarebbe una ben magra consolazione averlo almeno in parte previsto. Comunque si apre un problema di enorme portata.
Come si può sperare, sia pure non nell’immediato futuro ma in un tempo ragionevole, di costruire una alternativa rispetto agli attuali equilibri e alle attuali politiche in Europa? Come è possibile offrire uno sbocco politico, sia pure parziale, alla crisi economica, sociale, politica, che scuote di nuovo il mondo, senza che intervenga attivamente e autonomamente una Europa diversamente orientata e diretta? Ed è possibile tutto ciò, dando per scontata una capitolazione e una sconfitta irreversibile di quelle forze moderate della sinistra che storicamente, e tuttora, ne costituiscono grande parte e rappresentano – a livello istituzionale ma non solo – ceti, culture, tradizioni di cui una alternativa di governo difficilmente potrebbe fare a meno?
So bene che molti, in quella sinistra più radicale di cui noi ci sentiamo parte, considerano questi interrogativi oziosi e fuorvianti. Perché sono convinti che il movimento antiglobalizzazione abbia in sé una forza propulsiva sufficiente per crescere rapidamente e per offrire un’alternativa all’ordine dominante, e che nel conflitto sociale dal basso si possano trovare le energie necessarie; e perciò che affrancarsi da ogni illusione istituzionale, da ogni problema `di governo’ non è che un bene. Oppure, all’inverso, perché sono convinti che questo movimento è ancora ai suoi primi passi, e si muove in un quadro complessivo troppo sfavorevole per potersi porre, o perché sia utile proporgli, il problema degli sbocchi politici possibili gli è estraneo.
Io continuo a pensare che non sia così. Al contrario penso che proprio le novità ormai intervenute (il movimento antiglobalizzazione, il conflitto sociale, la crisi economica, il terrorismo, la guerra e le mutazioni geopolitiche che essa porta con sé) rendano oggi questo tema del rapporto tra i movimenti e il loro sbocco, tra una prospettiva di critica radicale e la sua traduzione in obiettivi e conquiste intermedi, più importante che mai. La politica, in senso forte, torna imperiosamente in campo. Senza di essa, il movimento stesso difficilmente può consolidare la sua unità, estendere la sua presenza, mettere radici permanenti in soggetti sociali precisi, difendere spazi democratici che gli sono indispensabili. In particolare gli sarebbe ancora più difficile trovare il modo di far convergere, come pure vorrebbe, la protesta che insorge all’interno della modernità e le grandi masse del Sud del mondo, i nuovi soggetti della contestazione e la ben più ardua battaglia del mondo del lavoro. È una questione da discutere a fondo, con un aggiornamento di analisi, una ricognizione delle forze, una nuova elaborazione teorica.
Comunque, sotto ogni aspetto e in qualsiasi prospettiva, un elemento del quadro non può essere rimosso. La crisi e l’involuzione della sinistra di governo', o dello stesso sindacato, aprono un vuoto, minacciano dissipazione di forze, particolarmente in Italia. Chiunque abbia partecipato e guardato con attenzione alle manifestazioni antiglobal di Genova, a quella pacifista di Assisi, o a quella dei metalmeccanici di Roma, non può negare di aver visto in campo, partecipe e in evoluzione, anche una vasta area di anziani e di giovani, che sono ancora non superficialmente legati – per tradizione culturale, per collocazione sociale, per esperienze compiute – a una identità propria e distinta rispetto alla componente più radicale e militante del movimento: associazionismo cattolico, movimenti tematici ambientalisti o solidaristici, un settore democratico dell'intellettualità, giovani lavoratori che scoprono la lotta e insieme vogliono concluderla con un risultato, che contestano il sindacato e insieme scoprono di averne bisogno. Anche al di là di questo, c'è tutto un mare di elettori insoddisfatti, delusi e non arresi. Tecnici, insegnanti e studenti, medici, operatori sociali e culturali, (moderne classi medie), che avevano creduto nel governo dell'Ulivo, sono pieni di amarezza trovandosi governati da Berlusconi, a veder riabilitati i tangentisti e colpiti i magistrati, o minacciate scuola e sanità pubblica, e constatano con rabbia che il primo, in molti campi, ha aperto la strada al secondo. C'è insomma un pezzo grande di società italiana che il congresso dei Ds e le miserie dell'Ulivo lasciano senza rappresentanza politica, e senza luoghi di organizzazione e di discussione. D'altra parte, dopo aver detto tutto ciò che si doveva dire di quel congresso, non si può neppure negare che nel suo svolgimento un pur limitato riflesso di questa contraddizione sia emerso. Dapprima in un dibattito, circoscritto ma non insignificante, sulla questione sociale e del lavoro, Poi, dopo gravi esitazioni, con un atto aperto di indisciplina in parlamento sulla e contro la scelta della guerra. Non è irrilevante che questa battaglia da sinistra abbia mobilitato settantamila militanti, né che vi sia stata, sia pure in modo parziale e contorto, coinvolta la maggioranza della Cgil. Anche i sondaggi registrano un dissenso diffuso nel popolo diessino. È però probabile che ora a tutto ciò segua riflusso e disimpegno proprio tra questi compagni di base. C'è qualcosa da fare, o almeno da augurarsi, per impedire o limitare tale dissipazione di forze? Rispondere non è affatto semplice. Una battaglia di opposizione interna ai Ds, di tipo tradizionale, ho già detto che non ha prospettive, perché l'appartenenza le toglie credibilità, e soprattutto perché non esce dal circuito di un ceto politico ormai ossificato, non riuscirebbe a parlare ad altri, a mobilitare forze nuove: non c'è un congresso ogni mese, né ogni mese l'occasione di una guerra sulla quale dare voti differenziati in parlamento. D'altra parte una rottura improvvisa, una scissione proclamata dall'alto, seppure giustificabile da buone ragioni, non è allo stato dei fatti prevedibile e, non avrebbe dimensioni e risultati di rilievo. E allora? Allora l'itinerario forse possibile, per tentare di avviare anche in questo settore, vasto ma disperso, una ricomposizione della sinistra politica in Italia, a me pare, in estrema sintesi, il seguente. Punto di partenza obbligato, per le forze seriamente riformiste quanto per quelle chiaramente antagoniste, è far leva sul
movimento’, impegnandovisi fino in fondo, portandovi il contributo della propria base sociale, della propria identità, delle proprie esperienze e memorie, ma rispettandone l’autonomia, aiutandone l’unità e l’estensione. Senza queste forze e generazioni nuove, senza queste tematiche di grande respiro ideale, senza questa ricerca di un nuovo modo di far politica, non si va ormai da nessuna parte. Qui anzitutto si confronta e può agire la pluralità della sinistra politica come quella dei soggetti sociali.
Ciò presuppone, da parte di quella sinistra radicale che pur non può assumerlo in proprio e risolverlo, un’attenzione politica al problema, una volontà non strumentale di dialogo, nella pratica e nella elaborazione. Ma presuppone anche, e più direttamente, che la sinistra tuttora Ds, e i suoi corrispettivi nell’associazionismo o nel sindacato sviluppino, la battaglia avviata al congresso in una forma però del tutto nuova, cioè assumendosi il rischio della definizione di una soggettività politica riconoscibile, elaborando una originale ricerca culturale, sperimentando un’iniziativa pratica autonoma, mescolandosi in un arcipelago in gran subbuglio che oggi si muove e sperimenta alla sinistra dell’Ulivo e fuori degli steccati istituzionali, oltre le appartenenze codificate.
Non è certo quel processo costituente di una forza politica alternativa in cui qualcuno di noi aveva sperato, e che comportava un ben più profondo e risoluto investimento da molte parti, ma che non è decollato, è stato scavalcato dagli eventi, sarebbe velleitario riproporre ora. Ma proprio la grande novità e l’ampiezza, non a caso soprattutto in Italia, del movimento di massa, se si evita la tentazione di portare al suo interno la contesa politica e ideologica come elemento di demarcazione o di divisione, e anzi lo si sostiene e lo si usa come sede comune di confronto e laboratorio di idee e di esperienze, può offrire uno spiraglio per affrontare un problema altrimenti insolubile.
di Lucio Magri Il Manifesto n. 23, dicembre 2001