Diffido ormai di espressioni – quali svolta epocale', oppure
nulla sarà più come prima’– che in tempi recenti sono state usate troppe volte, spesso in modo enfatico e generico, così da perdere di valore sia analitico che emotivo. Perciò mi sono impegnato con me stesso a non usarle (prima del diluvio universale). Tuttavia è difficile negare che nel 2001 siano intervenute, nella situazione italiana e in quella mondiale, alcune novità che, sommandosi all’improvviso, hanno creato un quadro complessivamente diverso. A un quadro segnato prevalentemente dalla stabilità di un assetto di potere e di un pensiero dominanti, accettati o subìti da una grande maggioranza, o contrastati da minoranze isolate o autoconfinate in un’opposizione molecolare, si è sostituito un quadro di grande subbuglio, di violenti conflitti e di grande incertezza per l’avvenire.
A livello mondiale:
a. il terrorismo e la guerra come fenomeni di lunga durata, il dominio senza limiti, più che l’egemonia, di una grande potenza, il rinnovato protagonismo dello Stato e in particolare dei suoi strumenti variamente repressivi;
b. il passaggio brusco da una fase economica che in vaste regioni garantiva espansione e ad altre ne prometteva l’avvio, ad una fase di generale stagnazione, forse di recessione e comunque di duraturo rallentamento – in qualche caso, anche crisi acute e distruttive;
c. la nascita di un grande movimento di contestazione, geograficamente diseguale e socialmente eterogeneo, ma che dura, si estende, contagia un arco vasto di forze e mette in discussione, se non il sistema come tale, quanto meno i suoi attuali caratteri e i valori fondanti e le grandi istituzioni che lo governano. In Italia: la vittoria di una nuova destra, con un reale radicamento sociale e con una rilevante omogeneità culturale, che si propone di sovvertire radicalmente l’insieme delle istituzioni e degli equilibri sociali, cui si contrappone una sinistra ulteriormente logorata e divisa.
A ciascuna di queste novità la nostra rivista ha dedicato attenzione da mesi. A volte anticipandole, a volte riconoscendole e valorizzandole al loro primo apparire, a volte reagendovi dopo esserne stata scavalcata. In ogni caso cogliendone la portata – in polemica con una cultura dominante che a lungo ha invece tentato di rimuoverla o di limitarla – e azzardando su ciascuna una lettura che via via lo svolgimento dei fatti ha confortato.
La difficoltà maggiore, e ancora del tutto irrisolta, sta però nel comporre e valutare un convincente quadro di insieme. Perché si tratta di fenomeni e di tendenze tra le quali non solo non esiste un nesso evidente di causa-effetto, ma hanno segno diverso o opposto, e dunque di ciascuna va ponderata l’incidenza relativa; e perché ciascuna di esse è contraddittoria in sé e ne vanno perciò decifrate la dinamica e la incerta evoluzione.
La globalizzazione sostenuta da armi soverchianti prefigura e ratifica un più forte e stabile dominio, o segna una incrinatura della precedente egemonia, e accentuerà quindi l’ingovernabilità e moltiplicherà i conflitti? La crisi economica è una parentesi, oltre la quale riprenderà presto l’espansione dell’economia neoliberale, o è legata a strozzature e debolezze strutturali, che impediscono alla nuova rivoluzione tecnologica' non solo di garantire uno sviluppo socialmente meno squilibrato, sostenibile, ma perfino di assicurare un ritmo di crescita produttiva costante e vivace? Quale sarà l'espansione del movimento di contestazione a livello globale e quindi la sua capacità di incidere, di ottenere risultati effettivi? Sarà capace di crescere contro la guerra o ne sarà compresso, la crisi economica agirà come ricatto sulle masse più sfruttate o come incentivo alla loro lotta? La crisi della
sinistra di governo’ aprirà la strada alla costruzione di una sinistra nuova e alternativa via via credibile fino a imporre una svolta anche a livello politico, o precipiterà in una dissoluzione dell’una e in un’isolamento dell’altra? In Italia, siamo ormai di fronte al consolidamento duraturo di un regime, o proprio questo tentativo di regime è destinato ad aprire contraddizioni vere nel suo rapporto con il paese e offrirà possibilità di riavviare le condizioni per una efficace opposizione?
Potrei continuare nell’elencazione di interrogativi cui non è facile rispondere: e infatti, di questi tempi, parlando con persone a me affini e affini tra loro, spesso mi accade di avvertire un sentimento di pessimismo nero (l’America ha vinto, di Berlusconi non ci libereremo per lustri) o all’opposto un ottimismo sorprendente (il capitalismo neoliberista è al tramonto, sta nascendo un nuovo `movimento operaio’, una alternativa globale).
Ciò che mi preme, e si può fare, è però affrontarli con un lavoro che non li isoli l’uno dall’altro in base ai desideri, all’esperienza diretta, all’appartenenza generazionale di ciascuno, ma al contrario componga in un quadro di insieme le occasioni, i vincoli e le minacce che si profilano. Nei momenti di crisi le cose non parlano da sé, né sono decifrabili con categorie generalissime, intuizioni e stati d’animo: obbligano all’analisi differenziata e rigorosa. Senza un’ipotesi e una previsione generale e di medio periodo sulla fase, diventa impossibile definire che fare.
È un compito che richiede curiosità, equilibrio di giudizio, lavoro e anche tempo. Un impegno dunque collettivo e un confronto aperto di opinioni. Non ho dunque affatto l’ambizione, in questo articolo, di presentare anche solo un’ipotesi di risposta. Mi pare possibile, e forse utile, fare solo in questa direzione alcuni modesti passi, riferendomi alle due questioni politicamente più pressanti, sulle quali il giudizio non può restare del tutto sospeso.
Il mondo e la guerra. A me pare indubbio che, in pochi mesi, tutte le ragioni che ci hanno spinto a considerare sciagurata la scelta di rispondere al terrorismo con una guerra, e terribili le sue conseguenze, si siano dimostrate giuste alla luce dei fatti.
L’equivoco dell’azione di polizia internazionale', già pericoloso in sé, si è dall'inizio chiarito: quella in Afghanistan è stata una vera guerra, combattuta al di là di ogni regola, con la logica dell'annientamento e del terrore, senza alcuna volontà e capacità di selezionare gli obiettivi. Ogni scelta è stata assunta, non solo con l'emarginazione e la manipolazione di ogni istituzione internazionale, ma senza consultare la
grande alleanza’ proclamata per avviarla, anzi cancellando ogni vincolo previsto dallo stesso Patto Atlantico: tanto da affermare esplicitamente un nuovo potere imperiale la cui forza stabilisce di per sé il diritto. L’obiettivo di `punire i colpevoli e di sradicare il terrorismo’ è stato mancato, anzi se ne sono creati, per il lungo periodo, nuovi presupposti. L’intenzione di avviare a soluzione alcune questioni che avevano concorso ad alimentarlo, in particolare quella palestinese, si è di fatto rovesciata nel suo contrario: anche per i palestinesi non la trattativa ma l’annientamento e la disperazione. La guerra di lunga durata, contro un nemico ubiquo e alla ricerca di una sicurezza impossibile, ha già prodotto la sovversione esplicita dello stato di diritto negli stessi paesi che vorrebbero difenderlo – fino al limite estremo dei tribunali militari speciali, e al trattamento disumano dei prigionieri e dei sospetti. Inutile proseguire: una guerra barbara e stolta, non tra civiltà ma inciviltà diverse.
Più difficile è capire qual è il prossimo futuro che essa prepara e se e come si possa intervenirvi.
Da un lato infatti sono emersi, sul campo, al di là delle previsioni e a correzione di qualche speranza, alcuni dati. Il salto di qualità ormai compiuto dalla macchina militare, la sua nuova e terribile capacità di distruggere l’avversario, il popolo e il paese contro cui si dirige, senza far pagare un prezzo di vite umane a chi la usa; una macchina molto meno intelligente e selettiva di quanto si proclamasse, ma brutalmente incontrastabile. La quasi totale passività politica di altri soggetti politici e statali di fronte ad atti che pure possono rappresentare un pericolo per i loro ideali o per i loro interessi: il silenzio della Cina, la complicità della Russia, l’avallo pieno dell’intera Europa, l’imbelle riluttanza dei paesi arabi. La pigrizia e la confusione dell’opinione pubblica europea – più difficili da capire che il consenso attivo di quella americana –, la scarsa capacità di reazione degli stessi popoli islamici rispetto ai propri governi, e anche il carattere coraggioso ma discontinuo e limitato della minoranza pacifista in Europa e in America Latina (l’Italia ha costituito dall’inizio un’eccezione, ma non ha fatto proseliti). Il terrorismo non è stato affatto sradicato, neppure bin Laden e Omar sono stati catturati, ma va constatato che già al momento della guerra esso non era in grado di rispondere, e gli Stati in cui si potrebbe ancora annidare, o ricostruirsi, sanno ormai ciò che può attenderli, per colpe reali o presunte: l’illusione americana di aver per un certo tempo chiuso la partita e disporsi in futuro a replicare allo stesso modo sembra trovare dunque per l’immediato una base reale.
Altri dati di fatto contrastano però questa previsione di stabilizzazione. Il terrorismo, come fenomeno generale e multiforme, non è stato, per il lungo periodo, debellato: non a caso ai proclami di vittoria si alterna ogni giorno l’affermazione che la guerra sarà di lunga durata, e già si indovina la ricerca di nuovi obiettivi da colpire in tempi brevi, di nuovi `Stati canaglia’ in cui intervenire, e si apprestano forze militari e coperture politiche per metterli in atto. È probabile che un tale allargamento del conflitto non trovi altrettante complicità che la guerra in Afghanistan, anzi susciti dissensi nei governi e offra nuovi stimoli a un generale movimento per la pace. D’altra parte alcune crisi limitrofe alla guerra, sono diventate molto più acute: quella di sempre, la palestinese, o altre latenti e sorprendentemente riacutizzate come il conflitto tra India e Pakistan.
Infine, su un altro versante, la recessione economica ha fatto precipitare una crisi degli assetti anche in America Latina. L’Argentina è un caso, oltre che tragico, da manuale: la dimostrazione estrema delle conseguenze disastrose di una globalizzazione neoliberista applicata nella sua forma più rigorosa; la prima esperienza di una rivolta popolare tanto radicale ed estesa da rovesciare successivi governi e da imporre una svolta generale; al tempo stesso la manifestazione di uno sfascio sociale e politico così profondo da impedire la formazione di un’alternativa e da aprire la strada a un conflitto senza soluzioni. Molte cose indicano inoltre che quello argentino non è un evento isolato e senza conseguenze continentali: il disegno degli Usa di integrare e stabilizzare il continente con l’istituzione di un Mercato Unico e con l’esercizio di una schiacciante forza economica è bloccato, e si apprestano invece nell’ombra gli strumenti per nuovi interventi repressivi come nel buon tempo antico; dal Venezuela al Messico, dal Brasile alla Colombia il Washington Consensus è messo in discussione o da governi, o da movimenti di protesta sociale, o da conflitti armati (ma in forme diverse, con diversi rapporti di forza, e con sbocchi ancora tutti da definire). L’Europa infine, dopo Maastricht, non solo ha fallito l’obiettivo di una accelerazione dell’unificazione politica, ma proprio ora ha fatto passi indietro gravi nella sua autonomia in politica estera, e nella ridefinizione di un proprio modello economico-sociale, cosicché sotto la retorica europeista si acuisce un contrasto tra nazionalismi risorgenti e un’idea di unificazione dall’alto, tecnocratica, senza idee e senza partecipazione, che concorre a bloccare il processo di formazione di un soggetto decisivo per il governo del mondo.
Sono tutti elementi che definiscono un quadro mondiale niente affatto orientato alla stabilizzazione, rafforzano l’esigenza di un ricambio e di una svolta, ma al contempo segnalano un vuoto tuttora grave di forze e di idee capaci di definirla, imporla, guidarla. Un vuoto che non sarà possibile rapidamente colmare con una secca e semplificata contrapposizione tra forze antagoniste e forze interne al sistema, tra movimento dal basso e lotta nelle istituzioni, ma impone invece di saper cogliere una pluralità di contraddizioni in ogni campo e a tutti i livelli, individuare alleanze, itinerari, obiettivi successivi. «Un altro mondo è possibile», ma sarà complicato perché già molto complicata è la crisi di quello che c’è.
Berlusconi, l’anno dopo. Quante volte abbiamo sentito correre tra noi, prima del 13 maggio, l’idea che la vittoria del centro-destra non avrebbe cambiato più di tanto le cose rispetto a un centro-sinistra ormai degenerato – idea speculare a quella dalemiana di domare Berlusconi legittimandolo e di batterlo accettando parte delle sue posizioni? Del resto non era prevalsa la continuità in Spagna, dopo il ricambio tra Gonzales e Aznar, e in Inghilterra dopo quello, in senso inverso, tra Major e Blair?
Sette mesi sono bastati però a chiarire che le cose non stavano così. Non c’è niente di comune tra il consolidamento graduale e prudente del centro-destra spagnolo anni fa e la svolta brutale e veloce che Berlusconi ha subito messo in atto, che somiglia semmai a quella della Thatcher alle origini, ma in Italia e nella fase attuale, deve sconfinare in una logica di regime semiautoritario, `in nome del popolo’.
Tutto porta a questo giudizio sul governo. Metodo e merito, in ogni settore: istituzioni, relazioni internazionali, giustizia, economia, Stato sociale, diritto del lavoro, scuola, informazione, relazioni con sindacati e Confindustria, occupazione – «ratto siccome il fulmine» – dei centri di potere al centro e alla periferia. Su ciascuno di questi capitoli la rivista ha cercato di mostrare ciò che è in atto, e continuerà a farlo, con analisi e argomenti di fatto. Una valutazione complessiva – un regime in cantiere – in questi giorni lo hanno espresso sul quotidiano Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Valentino Parlato, con la incisività e l’efficacia di penne che io non possiedo. È inutile quindi che in questo articolo ci ritorni. Per formulare una previsione e derivarne qualche indicazione sul che fare è però possibile e utile aggiungere alcune considerazioni, sempre attenendosi ai fatti.
A. La direzione e la velocità dell’offensiva berlusconiana non esprimono, a me pare, solo il carattere del personaggio, né una scelta libera. La pressione delle cose lo costringe a muoversi in fretta e a correre i suoi rischi.
Esempio più semplice: la legge sulle rogatorie, l’attacco frontale e di principio all’autonomia della magistratura, l’incredibile tentativo di bloccare, costi quel che costi, il processo di Milano, nascono da un bisogno individuale e di gruppo, di proteggere, una volta per tutte, da una condanna penale un leader di cui il centro-destra non può per ora fare a meno.
Esempio più complicato, ma ancora più importante: la pressione della crisi economica. Lasciamo pure da parte le prospettive di più lungo periodo, che comunque fanno emergere il dubbio che la new-economy non sia un eldorado, che il ritmo di sviluppo atteso non garantirà a molti il futuro magnificato, che gli spiriti animali del mercato oltre che essere regolati debbano ormai essere rianimati. La crisi pesa già nell’immeditato, come congiuntura. Per un decennio, l’economia americana – la sua bolla e i suoi consumi spinti dall’indebitamento – hanno fatto da locomotiva a un’economia europea molto legata alle esportazioni di beni a buon mercato o di alta qualità, di industrie avanzate o di nicchia. Si sapeva che non sarebbe durato, non si è provveduto in tempo con una politica economica e non solo monetaria comune. Ora la locomotiva è per un po’ ferma in stazione. Non solo: per i paesi europei il mercato delle esportazioni è anzitutto interno alla comunità (il 70%), e questo mercato aveva anch’esso una locomotiva ausiliaria, la Germania, che in questo momento però è in panne. I margini, a breve tempo, si stringono dunque per tutti. Ma si stringono in particolare per l’Italia cui l’euro ha tolto la risorsa della svalutazione competitiva, ma non ha compiuto passi rilevanti sul piano dell’ammodernamento produttivo, e, pur avendo riportato sotto controllo il bilancio, comunque conserva un debito pubblico anomalo. Il sistema delle imprese ha dunque bisogno subito di tagli al costo del lavoro, di sostegni pubblici diretti, di occasioni eccezionali di profitto. Ma nel contempo, il mondo del lavoro, vecchio e nuovo, privato e pubblico, già a lungo spremuto mostra volontà di difendersi e di recuperare. Ecco perché occorre, per il blocco politico sociale del centro-destra, abbattere ulteriormente, in fretta e con strumenti politici, quel tanto che resta del sistema dei diritti per far pesare il ricatto disoccupazione, frammentare il mercato del lavoro, ridurre la spesa sociale complessiva, alimentare il flusso di risparmio finanziario (i fondi pensione), garantire sovraprofitti deregolamentando l’uso del territorio e concedendo privilegi e sanatorie fiscali, adeguare il sistema formativo a una domanda di professionalità modernamente usabili anche se un po’ straccione. Tutto si tiene, in un nuovo tipo di emergenza.
Ma è un tutto che può aprire problemi crescenti anche nella base di consenso che ha assicurato a Berlusconi una vittoria che, molto più solida di quella del ’94, in termini di voti non vale un grande e definitivo sfondamento. Problemi soprattutto in quel popolo profondo, ma disorientato e manipolabile, conquistato nelle idee, non ancora soddisfatto nelle condizioni di vita. E allora occorre rapidamente anticipare un più solido monopolio dell’informazione, ricosturire in fretta tutti gli strumenti e le risorse dei centri di potere. È il meccanismo, fatale per ogni populismo, in tempi duri, che porta a un regime, a più o meno a bassa intensità. È la differenza sostanziale tra populismo e fascismo: in un caso l’autoritarismo è un’ideologia, un programma, un valore, nell’altro una conseguenza e un processo molecolare.
B. Su questa strada, Berlusconi ha delle carte in mano (una maggioranza parlamentare molto più ampia del voto popolare, il sostegno dei poteri forti, il compromesso con il confessionalismo, l’apatia e la disinformazione di gran parte della opinione pubblica), conserva dunque un consenso misurato in nuovi risultati elettorali (ad esempio la Sicilia). Questa volta non basterà una spallata a rovesciarlo, tanto meno un’astuta manovra di palazzo.
Ma è pur vero che qualcosa si muove in altra direzione. Non è irrilevante che un attacco così eversivo sul terreno della giustizia abbia portato alla resistenza non una minoranza intransigente, ma la larga maggioranza di un intero ordine dello Stato. Ancor meno irrilevante è che il fronte sindacale finora diviso sia costretto a ritrovare una pur precaria unità sotto la spinta di conflitti e di lotte concrete, e soprattutto che si siano spostati equilibri e orientamenti nella Cgil. Il tema della guerra e del disastro sociale nel Sud del mondo, inoltre, sta producendo, se non una svolta, almeno una riflessione e una dialettica nella Chiesa cattolica a tutti i livelli. Insomma: uno sciopero generale è in vista, la legge Moratti incontra forti resistenze tra studenti e insegnati, il razzismo della legge Bossi non fila liscio.
La partita dunque non è ancora chiusa, e materiali su cui un’opposizione può lavorare ci sono.
C. Ormai è però diffusa nel senso comune l’opinione che un’opposizione incisiva, credibile, non ci sia. A me pare che tale opinione sia seriamente fondata su fatti e responsabilità politiche precise. Molto di ciò che Berlusconi porta a fondo fa leva su cose già avviate o intenzioni già espresse dagli ultimi governi di centro-sinistra, e ancora non criticate, anzi a volte ribadite. Margherita e Ds, tuttora assumono, come idea generale per l’opposizione, la sfida per una modernizzazione senza aggettivi': cioè l'idea che il 2001 ci ha lasciato stremata. Malgrado la guerra e le sue implicazioni l'Ulivo ha finora, grottescamente, riaffermato, che la politica estera deve essere
bipartisan’, quando è opinione comune ed evidenza dei fatti che proprio nella politica estera si propongono ormai le scelte e si definiscono le discriminanti fondamentali. Il rifiuto e la contestazione della politica economica e sociale è tuttora contraddetto dall’incoerenza su molti punti, e soprattutto dall’esitazione a sostenere un movimento di lotta se non sia pregiudizialmente promosso da una decisione sindacale unitaria. Dopo tutti i salmi cantati sull’europeismo, l’Ulivo si è diviso sulla scelta del nuovo presidente del Parlamento di Strasburgo, una sua parte ha votato con Forza Italia. I Ds hanno rivelato una crisi profonda al loro congresso, nella loro costituzione materiale più ancora che nel loro dibattito. La Margherita sente, almeno nel Sud, la pressione disgregatrice della `rinascita democristiana’, nelle forme peggiori. Le forze minori dell’Ulivo – Pdci e Verdi – sono ridotte al lumicino o si dividono ancora.
A questo inquietante panorama delle soggettività organizzate' si aggiunge un fattore oggettivo, generalmente trascurato. Fare opposizione, nelle moderne democrazie, non è cosa facile. Per trent'anni, in Italia, abbiamo avuto un'esperienza straordinaria: una forza, il Pci, che pur era inchiodata all'opposizione dalla conventio ad excludendum, ha gradualmente esteso il suo consenso e la sua influenza, e dall'opposizione è riuscita a incidere sulle scelte di governo e sull'evoluzione della società. Questa anomalia era però fondata su tre pilastri essenziali: la
centralità’ conquistata nelle istituzioni dalle assemblee rappresentative elette col metodo proporzionale, quelle cioè nelle quali è più facile un collegamento tra paese reale e paese legale; l’esistenza di un partito di massa, straordinariamente radicato nel paese e in diversi strati sociali, e di un sindacato solidamente confederale ma capace di una quotidiana ed efficace lotta contrattuale; un loro sistema formativo e informativo alternativo a quello dominante, che anche nei momenti più duri aveva grande diffusione, incisività, molteplici strumenti per orientare autonomamente vasti settori del paese.
Ora questi pilastri sono diroccati, non solo in Italia. Restaurarli è difficile e, nella loro forma classica, forse impossibile. Non a caso ovunque l’opposizione – tra un’elezione e l’altra – finisce ai margini, cerca di intercettare spinte di opinione, più che acquisire e mobilitare forze nuove, in attesa che i governi stanchino o deludano gli elettori.
D. Se queste constatazioni di fatto sono vere, se ne possono trarre alcune conclusioni, che espongo in estrema sintesi.
Per rovesciare domani Berlusconi e il suo progetto occorre frenarne l’offensiva ora, prima che si consolidi in un regime. Tra l’obiettivo, a medio-lungo termine, di una alternativa al capitalismo neoliberale e neo-imperiale e quello di battere l’attuale governo in Italia, c’è un nesso evidente, reciprocamente si sostengono. Ma sono anche distinti, nei tempi e nei soggetti da coinvolgervi. Considerare l’uno implicito, o conseguenza dell’altro è un errore. Per costruire una opposizione efficace, la leva di partenza, anche sul piano specificamente politico, è il movimento in atto. Di esso occorre fare una valutazione realistica, cogliere anche le debolezze, e ci si può differenziare nella valutazione. Ma è indubbio che, soprattutto in Italia, esiste, dura, per ora si estende. È animato da una critica forte ma consapevole del processo di globalizzazione in atto e delle istituzioni che lo governano. Fa affacciare dopo molti anni alla politica una generazione che si affaccia alla vita. Coinvolge e può coinvolgere diversi soggetti sociali: studenti, insegnanti, ma anche operai, precari, tecnici. Esprime una tensione ideale radicale ma è nato da pratiche dal basso e si misura su temi concreti. Attraversa culture e tradizioni non solo della sinistra classica quali l’ambientalismo, il femminismo, il pacifismo, il mondo cattolico, l’intellettualità democratica. Questi suoi caratteri offrono i materiali per incidere politicamente, rianimare culturalmente un’opposizione non necessariamente minoritaria né chiusa entro un ceto politico sempre più asfittico.
Ma il movimento, anche al meglio, non basta. Una `costituente del movimento’, se non vuole incrinarne l’unità e forzarne il pluralismo e l’organizzazione a rete, non può direttamente costituire un’alternativa al governo. Si pone dunque più che mai il problema di un programma complessivo e coerente: non troppo modesto da essere risucchiato nel quadro esistente, non così avanzato da non trovare il consenso e la forza. Paradossalmente, proprio nel momento in cui emergono maggiore consapevolezza sul carattere globale dei problemi e sulla natura generale della crisi degli assetti finora prevalenti, questo tema del programma resta invece irrisolto. Il programma originario dell’Ulivo non tiene più: alcuni suoi obiettivi sono stati a suo tempo in qualche misura raggiunti, altri, più importanti, sono diventati vacui o hanno sconfinato nel campo avverso. Ma anche la sinistra alternativa segna, su questo piano, il passo; pur affermando con sincerità che occorre passare dalla difesa all’offensiva, dalla protesta alla proposta, il suo discorso programmatico si divarica tra la radicalità della prospettiva e obiettivi immediati magari giusti ma molto disorganici e spesso fin troppo modesti. L’altro problema da discutere e risolvere è quello dello schieramento politico da ricostruire per competere. L’Ulivo, se non è morto, boccheggia: non si rimettono insieme i cocci del ’96 ferma restando la nomenclatura politica attuale e l’orientamento delle forze che la compongono. La speranza d’autoriforma dei Ds nel loro insieme è inconsistente.
Il peso del centro democratico, laico e cattolico, unito precariamente nella Margherita, non cresce né trova radici. Eppure sappiamo che per rovesciare Berlusconi il problema di ampie alleanze, in un sistema ormai maggioritario, non è eludibile. Per risolverlo, occorre una forza propulsiva, che, in certa misura, è già cresciuta nelle cose. Se si riconosce nelle discriminanti del no alla guerra, del no al neoliberismo, del no al presidenzialismo populista, un ampio settore della politica e della società italiana esiste ormai, alla sinistra dell’attuale Ulivo. Non basterebbe da solo a rappresentare una maggioranza, ma basterebbe – se fosse meno disperso e si sforzasse di convergere – per innescare un processo più ampio. Torna allora all’ordine del giorno l’idea, quali ne siano le forme e i tempi, di una riorganizzazione, anche politica, di una sinistra alternativa, un’idea che noi avevamo proposto al dibattito. Probabilmente essa era immatura o in qualche aspetto sbagliata. Ora le viene riconosciuta da diverse parti una maggiore legittimità, ma senza che si muova molto.Di questo passo, se ancora la partita dell’opposizione non è giocata, la probabilità di vincerla è molto ridotta. Un `nuovo mondo’, nei tempi lunghi, resterà forse comunque possibile, forse si è già avviato senza che io me ne accorga. Ma certamente l’attuale offensiva del centro-destra italiano non verrà per ora fermata, e fra cinque anni, dopo aver fatto danni gravi, Berlusconi sarà ancora dov’è e probabilmente ci resterà.
di Lucio Magri Il Manifesto n. 25, febbraio 2002