Pietro Folena (Indipendente di sinistra, operatore culturale, blogger)
È necessario “alzare un po’ più spesso, e con fatica, lo sguardo, ad un futuro lontano e ad una storia gigantesca”. Quella di alzare lo sguardo era una convinzione radicata in Lucio Magri -che concluse così il suo intervento a un seminario dei giovani di Rifondazione Comunista nel 2010, poco tempo prima della scelta di morire raggiungendo così la sua amata compagna di vita-, che spesso aveva rivolto ai giovani di altre generazioni e in altri momenti storici.
Il merito del saggio di Simone Oggionni, giovane storico, oltreché appassionato militante della sinistra, dedicato alla figura di questo personaggio atipico ed eretico (S.Oggionni, “Lucio Magri. Non post-comunista, ma neo-comunista”, edizioni Efesto, Roma 2021), è quello di ripercorrere, proprio nell’anno in cui ricorre il centenario del PCI, una biografia in parte ancora sconosciuta, che testimonia anch’essa quanto il PCI fu una creatura originale e anomala nel panorama internazionale.
Magri è un uomo di frontiera, sempre sulla frontiera, segnato da un’inquietudine culturale e, se posso, esistenziale, tipica delle personalità di grande intelligenza e sensibilità. Questa inquietudine -questo non essere mai soddisfatti, cercare oltre, interrogarsi sulla situazione presente e lavorare per il futuro- ha condotto Magri, come è ben ricostruito nel primo saggio del volume, di taglio biografico, ad attraversare i territori del mondo cattolico bergamasco, della Democrazia Cristiana, del PCI, dei movimenti, del Manifesto, del PdUP, del PCI di Enrico Berlinguer, dopo la fine della solidarietà nazionale, e di quello dopo la sua scomparsa, di Rifondazione Comunista, dei Comunisti Unitari, di una nuova ricerca culturale nei primi anni 2000. Questo tormento errante non nasce da un’ambizione politica personale -come si potrebbe interpretare col senno del mesto tempo presente-, ma semmai da un’ambizione filosofica, dalla ricerca continua e mai interrotta delle modalità più efficaci per trasformare il mondo, a partire dalla condizione operaia e del lavoro.
In questo senso Magri a me appare come un filosofo politico, non certo perché sia stato un acchiappafarfalle, ma perché il bisogno di non fermarsi all’apparenza, di chiedersi sempre il perché, di “alzare lo sguardo” fa parte della propensione di un grande pensatore. Il riconoscimento che gli tributa Jean-Paul Sartre, nella lettera inedita pubblicata in copertina, è in questo senso clamoroso.
Spesso personalità così visionarie, si trovano a pre-vedere, vedere prima del tempo, tendenze in atto, dando all’azione politica quotidiana un senso che può apparire, ai gestori dell’ordinario, sfasato. Salvo poi, quando quelle tendenze si avverano, darti ragione.
I due tratti più salienti di questa biografia sono l’impronta cattolico democratica e la centralità della questione operaia. È un Magri giovane quello che nell’esperienza delle ACLI osserva fra i giovani della sua generazione -nei primi anni ’50- “una vera e propria atrofia del sentimento sociale” da imputare “all’intera concezione dell’uomo e della realtà che la società moderna, liberale e borghese, coltiva”.
Questo sentimento, questo fondamento etico sarà la base per tutto lo sviluppo del pensiero e dell’azione politica di Magri. Solo l’intervento autoritario di Amintore Fanfani impedì l’elezione di Magri a segretario dei giovani democristiani, e lo spinse nelle braccia del PCI. La domanda che ci si pone, al termine di questa lettura (che comprende, oltre al citato testo inedito di Magri del 2010 una riflessione politica sull’oggi di Oggionni), è quanto questa formazione cristiana, nata nella terra dei papi del Concilio Vaticano II° e dell’innovazione della Chiesa -Papa Roncalli è nato in provincia di Bergamo, e Papa Montini in quella vicina di Brescia-, abbia, molto di più di quanto sia poi apparso, segnato l’intero suo percorso politico e culturale.
Anche questo aspetto “neo-comunista”, di cui si parla nel libro, sembra richiamare l’idea di un comunismo etico, persino cristiano, che non si fa fatica a trovare in una parte della tradizione latinoamericana, fino a Papa Bergoglio. L’11 aprile scorso Francesco, nell’omelia, ha detto che negli Atti degli Apostoli “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Questo non è comunismo, ma cristianesimo allo stato puro”.
Magri, che pur nel 1956 aveva aderito alla difesa da parte di Palmiro Togliatti dell’invasione dell’Ungheria, e che poi aveva accettato la lettura agiografica e ideologica di Rossana Rossanda del maoismo della rivoluzione culturale, appare molto distante dai sistemi di partito unico e di pensiero unico, che hanno portato i regimi del comunismo reale ad una crisi storica. Non dubito, leggendo anche cosa scrive la sua compagna di lotte politiche Luciana Castellina, che oggi si collocherebbe in un dialogo intenso col Papa argentino.
Nella terra bergamasca e lombarda, approdando poi nella Milano degli anni ’60 -vero laboratorio di idee, intellettuali, sindacato, movimenti antichi e nuovi-, Magri, figlio di un militare, di classe media, “scopre” la questione operaia. È proprio quel “sentimento sociale”, che in lui mai si è atrofizzato, a condurlo a fare inchieste con i lavoratori e fra di loro, a riflettere sulle condizioni di vita, a partire da quelle salariali, come sulle aspettative morali e esistenziali dei lavoratori.
Giorgio Amendola, che in quel movimento è a Milano, lo chiama al Partito per questa sua indole. Ma presto l’irrequietezza di Magri lo porta a scontrarsi col grande dirigente comunista. Nel convegno sulle tendenze del capitalismo italiano promosso dall’Istituto Gramsci nel 1962, lo scontro si fa acuto. Da un lato il PCI, nella sua maggioranza, vedendo la profondità della rivoluzione industriale, è portato ad assecondarla, perché conosce le aspirazioni ad una vita migliore, anche in termini di modello di consumi, dei lavoratori e delle loro famiglie. Dall’altro Magri, e altri, insistono su una visione critica del processo in atto, intrecciando la propria azione con quella di dirigenti sindacali -fino a Bruno Trentin- che saranno poi protagonisti della stagione del sindacato dei Consigli e del 68-69 operaio e studentesco.
Magri già sente quello che dagli Usa e dal cuore del capitalismo sta arrivando, e avverte la forza della nuova soggettività giovanile. Non ha i paraocchi del dogma ideologico. Ha il gusto della realtà. Da lì nasce il percorso de il Manifesto e poi del PdUP.
Il punto più fecondo di questo percorso a me pare l’incontro con l’ultimo Berlinguer. Dopo gli anni ’70, non avendo condiviso la strategia del compromesso storico, che gli appariva come una maglia troppo stretta sui conflitti e sulle tensioni di quegli anni -il che non gli impedì di assumere nette posizioni contro il terrorismo-, l’incontro con il Berlinguer dell’alternativa, impegnato in una ricerca politica e culturale anch’essa visionaria, addirittura profetica, è davvero il punto cruciale del suo approdo politico.
Dai temi operai alla questione ambientale, dal pacifismo al femminismo, il PdUP di Magri -con la nostra FGCI, di cui io ero dirigente- e il PCI di Berlinguer tessono una tela che viene poi strappata dalla morte improvvisa del leader comunista. Il resto è storia più recente, dalle vicende di Rifondazione alla fondazione dei Comunisti Unitari -un movimento che fin dal suo nome evocava una polemica contro il settarismo e le divisioni a sinistra-, fino all’impegno più teorico e culturale culminato nel 2009 con la pubblicazione de Il sarto di Ulm,vero e proprio testamento politico e culturale di Magri.
Ora rimane il senso di una ricerca incompiuta e interrotta, che tuttavia riguarda fortemente il tempo presente, quando sembrano essere tramontate le vecchie strutture politiche -quasi dei fantasmi- e tuttavia si acuisce, nel popolo, tra gli operai, nella società, una solitudine sociale che ha bisogno di un nuovo “sentimento sociale”, di un soggetto politico e comunicativo che dia voce agli invisibili, agli esclusi, agli sfruttati, ai sofferenti, e che proponga un nuovo traguardo di civiltà.
*Huffington Post- Il blog – 15/04/2021